Per inquadrare Paolo Faragò aiuta dire che è alto 1 e 90 ma tutti lo chiamano Paolino. Si aggiunga che una giornalista, durante un ritiro estivo, giura di averlo visto seduto in poltrona intento a leggere un libro. Lui, 100 presenze e 4 gol in serie A con la maglia del Cagliari, 132 e 19 in serie B tra Como, Lecce e Novara, parla della sua vita da calciatore con la straordinaria consuetudine di chi ha fatto una cosa come un’altra.

Ce n’è abbastanza per segnalarlo al Wwf tra le specie da tutelare: il panda di Novara. «Ma la mia idea – dice – è che nel mondo del calcio ci sono tante persone normali. Tra i giocatori sono la maggior parte. Solo la normalità è difficile raccontare. Annoia. Non fa vendere giornali, non fa vendere click. Chi vuole fare ascolti non racconta la normalità».

È sceso in campo a San Siro all’Olimpico allo Stadium, con i suoi assist ha fatto di Pavoletti il re dei gol di testa, ha incrociato le spade con Ronaldo, Higuaín, Dybala, sa cosa si prova quando uno stadio intero si alza in piedi per un tuo gol. «La prima volta che ho giocato contro Ronaldo non ho pensato wow, questo ha appena vinto il Pallone d’oro. Mi è venuto naturale. Forse è stato anche un mio limite, non mi sono mai concesso di godere dei traguardi che ho raggiunto, piuttosto andavo a guardare quello che sbagliavo per capire come migliorare».

Faragò ha compiuto 31 anni il 12 febbraio, ha chiuso la carriera alla fine di gennaio quando aveva ancora sei mesi di contratto con il Como, dopo un calvario di 13 operazioni all’anca in 4 anni. «Avevo detto al direttore sportivo che mi sarei operato un’ultima volta a settembre. Se fossi riuscito a recuperare avrei cercato un’altra squadra – mi sarebbe piaciuto chiudere a Novara – altrimenti avrei rescisso senza far perdere tempo e soldi a nessuno».

La longevità

Eppure la nostra sembra essere l’epoca degli highlander, degli atleti longevi che si mantengono su livelli altissimi anche a ridosso o oltre i quarant’anni, che, dicono gli irriducibili, sarebbero i nuovi trenta. Totti ha smesso alla soglia dei 41, quando ancora risultava decisivo nei pochi minuti a disposizione. Ibrahimovic a 40 ha dato il suo contributo per lo scudetto del Milan. Valentino Rossi ha corso nella categoria regina del motociclismo sino a 42. L’impero di Djokovic inizierà pure a scricchiolare ma, a 36 anni, il serbo guarda ancora tutti dall’alto in basso, al numero 1 del ranking mondiale.

Lo sport negli ultimi vent’anni ha affinato le tecniche d’allenamento, che prevengono l’overtraining salvaguardando dai traumi; ha scoperto il ruolo del sonno, durante il quale viene rilasciato l’ormone della crescita che favorisce il mantenimento della massa muscolare; ha introdotto gli atleti ai benefici della crioterapia: Cristiano Ronaldo ha storicamente una sua personalissima sala per i bagni di ghiaccio, che riducono i tempi di recupero e il dolore muscolare.

Ma la verità è che tanto, quasi tutto, lo fa la genetica. E l’anca di Faragò aveva un difetto congenito, una sporgenza ossea che in seguito a un evento traumatico ha finito per usurare la cartilagine. Chiunque a 26 anni si sarebbe disperato, ma lui sostiene che i «piccoli momenti di disperazione erano sempre scalzati da piccole speranze. Non stavo lì a piangermi addosso, alimentavo nuove aspettative. E poi avevo un progetto: già durante il lockdown ho iniziato a ragionare sulla possibilità di un futuro nel mondo del vino. Ho iniziato a informarmi, a studiare. Con Irene, mia moglie, abbiamo esplorato i luoghi del vino in Sardegna, ci siamo innamorati sia dell’isola che dei suoi vigneti».

Nato a Catanzaro ma cresciuto e vissuto a Novara, dove ha esordito giovanissimo tra i professionisti, Faragò si è unito alla folta schiera di giocatori che dopo il calcio ha scelto Cagliari per mettere radici.

«Con Irene stiamo insieme da quando eravamo poco più che ventenni, ma è a Cagliari che ci siamo sentiti coppia per la prima volta. Qui ci è piaciuto tutto sin da subito, ci siamo trovati in sintonia con i ritmi, con le persone, con il paesaggio. È vero, bisogna prendere un aereo per fare qualsiasi cosa, ma quando ci siamo allontanati tutto questo ci è mancato». Irene, per inciso – anche lei di Novara, sorriso contagioso – di professione non ha mai fatto la moglie di un calciatore (quanti luoghi comuni certe volte), ma è un giovane medico che negli anni cagliaritani si è specializzata in oncoematologia.

La semplicità

Di Faragò colpiscono due cose: una propensione all’understatement che è forse il suo tratto più sardo, e una forza mentale fuori dal comune, quella che gli ha permesso di diventare un calciatore di serie A (i numeri parlano di 1 su 5 mila tra chi proviene dai settori giovanili dei club professionistici, ma il rapporto è ancora più spietato se si considerano i milioni di praticanti in tutta Italia).

«Crescendo mi ha contraddistinto una cosa, credo innata. Una dedizione al lavoro che mi ha fatto comportare seriamente anche a 15 anni. È una cosa che non ho imparato da nessuno, sentivo di voler dedicare tutto me stesso a quello che facevo. Ho visto tanti ragazzi pieni di talento perdersi perché non riuscivano a calarsi nelle dinamiche del professionismo. Serve un’attitudine diversa, che per fortuna avevo».

Con il vino è successa la stessa cosa: Paolo si è buttato anima e corpo, si messo a studiare, è diventato sommelier, ha approfondito le nozioni sulla coltivazione della vite e sui dettagli di ogni aspetto agricolo. Investire nel vino è da qualche anno un vezzo degli ex calciatori, ma sono in genere ex di lusso che mettono il loro faccione (e qualche soldo) per promuovere o creare un marchio. Non è questo il caso.

«Domani dobbiamo piantare un frutteto ma in generale il lavoro in vigna mi impegna da aprile sino alla vendemmia, tra agosto e settembre. Prima avevo l’abbronzatura a mezze maniche da calciatore, ora quella a mezze maniche da vignaiolo». L’azienda è a un passo da Cagliari, sulle colline di Serdiana, «che ho scelto perché da quei terreni arrivano molti vini di qualità. Inoltre è una zona comoda dal punto di vista logistico: dall’aeroporto sono 15 minuti, 20 dalla città. In previsione enoturistica era un discorso che aveva senso».

Per inquadrare Faragò aiuta dire anche un’altra cosa, e cioè che non avrebbe voluto dare il suo nome alla sua produzione, gli sembrava una scorciatoia. «Volevo slegare il progetto dal mio percorso di atleta, dare più importanza alla serietà del discorso enologico che alla mia dimensione pubblica. Poi l’idea giusta non arrivava e questa incertezza ci ha fatto perdere un bel po’ di tempo. Alla fine mi hanno convinto gli amici, tutto sommato il nome suona bene e così sono nate le Tenute Faragò». Dai 7 ettari di Serdiana arrivano uve per produrre cannonau, bovale, vermentino e malvasia.

La prima etichetta è del marzo 2022 e per capirne qualche cosa servirebbe Gianni Mura, io posso solo dire che quando Paolo ordina da bere chiede un vino che sia pulito, che è anche l’aggettivo più calzante per questo ragazzone di quasi due metri assurdamente chiamato Paolino.

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