In questo, Margaret Court può farcela ad avere ragione: il diavolo c’è. Celebratissima regina del tennis che fu, i suoi ventiquattro Slam conquistati a colpi di fisico giunonico e attacchi a oltranza appartengono a un mondo estinto, eppure svettano tuttora nella maniacale ricerca di classificazione del mondo: i più grandi, i più forti, i più bravi e vincenti.

È pur vero che una buona metà di quei titoli sprofondano nel bianco e nero dei dilettanti separati dai professionisti e la sua amata Australia, che oggi la tollera a mo’ di signora un po’ logora e obsoleta nel parlare e nel vestire, contribuì a quel primato festeggiandola per undici volte campionessa del torneo di casa, allora disertato da tante.

Restano ventiquattro Slam e ventiquattro è, nella smorfia di Serena Williams, la cifra dell’amarezza: bloccata dal panico da Everest a una lunghezza dal primato e sì, indubitabilmente condizionata dall’aura di inafferrabilità di un traguardo che, nei decenni, si è fatto totem. Neppure lei, la tennista tritatutto, è riuscita a raggiungere miss Court. Magro conforto è il suo tweet dell’altro giorno in cui, saputo della squalifica per doping di Simona Halep, Serena si è intestata un’ottava corona di Wimbledon per fare pari e patta con la sua antenata australiana.

Margaret Smith Court

Il primato sussisteva, fino a qualche giorno fa, in beata solitudine. Oddio, beata: la patria dell’Happy Slam ha dovuto convivere, dacché si è svegliata la coscienza collettiva sui diritti civili in occidente, con un patrono particolarmente scomodo e retrogrado. Una volta conclusa una carriera mirabolante impreziosita da undici titoli aussie in singolare, otto in doppio, quattro in misto e con un ammontare complessivo di sessantaquattro trofei Slam, Margaret Smith ha preso servizio nella comunità pentecostale e, dal 1995, gestisce il Victory Life Centre di Perth.

Nel quale non insegna a colpire la volée di rovescio col polso saldo, come a lei e poche altre riusciva ma, per citare le sue stesse digressioni, si occupa – tra varie altre opere di bene, si intende – di «guarire molti omosessuali» dalle loro disgustose deviazioni. «Da trent’anni sono una pastora, insegno la Bibbia e ciò che, in essa, Dio ci insegna».

Per esempio, citando l’identico passo del Levitico recentemente sventolato da un senatore di FdI («Non avrai con maschio relazioni che si hanno con una donna, è abominio»); senza molta cura per il fatto che, poche righe sotto, le scritture reputino egualmente obbrobrioso toccare una donna con abbondante flusso mestruale o consumare taluni quadrupedi.

Tutto parimenti abominevole quanto «cucinare insieme carne e latte». Le prime esternazioni pubbliche della pastora riguardarono la disgustosa pratica del divorzio e non diedero scandalo. Venuta a sapere che la collega Casey Dellacqua avrebbe avuto un figlio nonostante fosse dichiaratamente gay, la reverenda Court scese in campo con l’armatura perché «quel bambino era stato apparentemente privato di un padre» e, dopo aver certificato che il mondo del tennis fosse peccaminosamente «pieno di lesbiche» con tanti saluti a Billie Jean King e Martina Navratilova, alzò ulteriormente il tiro minacciando di boicottare la compagnia aerea Qantas per via di certi suoi satanici spot pubblicitari inclusivi.

I mancati inviti a Margaret

Margaret Smith Court

Negli ultimi anni, insomma, gli illuminati organizzatori del torneo preferito da giocatori, coach e accompagnatori tutti si sono trovati in ambasce, stretti nell’imbarazzo di aver intitolato (giustamente) il secondo campo di Melbourne Park alla loro campionessa più vincente e la di lei progressiva e ossessiva escalation da predicatrice inferocita, col Vecchio Testamento brandito alla maniera della Wilson di legno e gli smash in testa ai «bulli Lgbt».

Tanto che, in occasione del cinquantesimo anniversario del suo Grande Slam, chiuso nel 1970, Tennis Australia decise per una celebrazione mesta e scolorita, certo non arcobaleno: una targhetta, due parole di rito. Court abbozzò e capì di non essere più desiderata. Difatti, non venne più invitata.

Il torneo, da allora, ha istituito un Pride Day e ha dovuto sedare una fronda, capitanata dal sempre presente laddove c’è tumulto John McEnroe, che chiedeva di levare la dicitura Margaret Court dal campo e sostituirla con il nome di una campionessa aborigena molto meno divisiva, Evonne Goolagong. Con una dichiarazione ambigua: ammiriamo Margaret per il suo tennis, non la pensiamo come lei. Amen.

L’aggancio di Nole

Novak Djokovic

Nel mondo corretto e timorato di Dio della signora Court, insidiato da disordini morali inaccettabili, con la chiusura della stagione Slam 2023 si è però aggiunto un elemento inatteso. Non Serena, non Roger Federer né Rafa Nadal ma il divisore per eccellenza, Novak Djokovic, il ragazzino povero della montagna sperduta partito con una rincorsa formidabile dal primo Slam in Australia nel 2008: si è appropriato lui, del quarto titolo Slam sul cemento di New York.

Che, sommato ai tre parigini, ai sette di Wimbledon e ai dieci proprio in Australia, ha distanziato la concorrenza di rivali e di epoche e toccato la fantasmagorica Quota Ventiquattro. Comparare le imprese dei pionieri del professionismo con i superuomini contemporanei è sensato quanto chiedersi se fosse più forte Fangio, Senna o Hamilton ma l’attrattiva del tradurre in numero un valore è connessa al funzionamento dell’uomo e la corsa al cosiddetto Goat, il più grande tennista di tutti i tempi, viene abbinata alla conta dei titoli che rendono un atleta immortale.

E Djokovic, se non più grande – qualunque senso abbia il termine – è certamente il più vincente, in una realtà di competizione sfrenata. Ha rimesso le mani pure in una vicenda ferma da cinquant’anni, dall’ultimo Slam firmato Margaret court, gli Us Open 1973.

Succede, così, che il potenziale nuovo recordman di sempre potrebbe aggiungere la mattonella numero venticinque proprio laggiù, a Melbourne. Che, come se non bastasse il feticcio ingombrante della Savonarola dei bigotti, si ritroverebbe a tributare gli onori al più discusso e controverso personaggio del tennis contemporaneo.

Gli australiani non hanno dimenticato la vicenda del tentato salvacondotto quando, pur privo di vaccino, Djokovic pensò di potersi incuneare tra un regolamento federale e uno statale per disputare l’edizione 2022 dell’evento. Finì malissimo: detenzione temporanea in un centro per respinti alla dogana, udienze per direttissima, espulsione con ignominia da un paese che aveva introdotto le norme più stringenti e simili ai coprifuoco militari cinesi per limitare gli effetti della pandemia.

Il tennis, sport della misura e del savoir faire, ha nei suoi due vessilli dal curriculum più pesante due personaggi che hanno catalizzato, quando non tifo adorante e, dall’altra, odio dichiarato, dibattiti più o meno civili e polemiche tanto profonde da toccare i gangli della convivenza. Sono stati tirati dentro o l’uno o l’altro (a volte incolpevolmente, quando non lo hanno fatto di proposito) in dispute sulla intolleranza religiosa, le libertà personali, la sanità pubblica, l’alimentazione.

Djokovic, peraltro, da fiero non vaccinato è acclamato, gli piaccia o no, dai no-vax; per la gioia delle frange vegane in cerca di testimonial di eccellenza, non consuma alcun prodotto di origine animale; pratica il digiuno intermittente, fa uso di argento colloidale. L’Australia è casualmente quel posto in cui il covid è stato trattato, fin dai primi giorni, come la peste nera del Trecento, con un lockdown devastante di 262 giorni riservato alla metropoli di Melbourne. Nel quale si producono ed esportano tra le maggiori quantità al mondo di carne di manzo, montone, agnello e latte. Quelli che cucinati insieme, parola di Mosè, risvegliano il diavolo.

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