“L’Oscar dei riscatti” è un marchio a cui l’Academy si è affezionata. Ha trionfato Oppenheimer di Christopher Nolan, artista più volte candidato e mai premiato, che si è preso anche Miglior regista; Robert Downey Jr a 58 anni è arrivato al primo Oscar dopo tre nomination, poi Cillian Murphy ha vinto da orgoglioso «uomo irlandese». Dopo la gioia del quartetto di attori dello scorso anno, anche loro vincitori dopo anni di rifiuti, la formula funziona ancora. L’unico che non ha ancora avuto il suo riscatto è Bradley Cooper, che con 12 nomination in tutta la sua carriera anche questa notte è tornato a casa senza statuetta.

È stato però anche l’Oscar dei pronostici rispettati. La sola categoria che prometteva un po’ di indecisione, quella di Miglior attrice, ha visto sfumare la vittoria di Lily Gladstone per Killers of the flower moon in favore di Emma Stone, per il già plurivincitore Povere creature!: era stata in bilico fino all’ultimo, tra Stone, che aveva vinto parecchi premi durante l’award season, e Gladstone che aveva ricevuto quello del sindacato degli attori, considerato più vicino al voto dell’Academy.

E poi, c’è chi era lì solo per sentire Ryan Gosling cantare I’m just Ken. La sua “Kenergy” ha ravvivato una cerimonia destinata a restare sui binari.

Una cerimonia senza guizzi

Una cerimonia che in un certo senso è stata più matura: la lista di quest’anno è considerata una lista di titoli particolarmente di qualità. «La scelta di Killers of the Flower Moon e Barbie tra i migliori film di quest’anno è la prova che l’audacia artistica è sopravvissuta alla dominazione dei supereroi», ha scritto il New Yorker. I due film citati hanno finito per non vincere quasi niente: un peccato soprattutto per Martin Scorsese, che si è ritrovato contro il candidato impossibile di Nolan.

Una cerimonia alla fine anche più sobria, dopo lo sciopero congiunto di attori e sceneggiatori che ha ricordato al mondo che non tutto luccica sopra il red carpet. E soprattutto più rapida: è iniziata un’ora prima rispetto agli anni passati, chi l’ha seguita da oltreoceano ha ringraziato.

Per l’Italia, tra l’altro, per la prima volta in vent’anni la trasmissione è passata da Sky a Rai uno. Dallo studio della Vita in diretta, Alberto Matano, Antonio Monda, Paola Jacobbi, Claudio Santamaria, Ambra Angiolini, Claudia Gerini, Stefania Sandrelli e Gabriele Muccino hanno commentato i premi, collegandosi con l’inviato dal red carpet Paolo Sommaruga. Il critico Gianni Canova, che fino all’anno scorso ha commentato gli Oscar su Sky, ha salutato su Instagram il suo pubblico chiedendo di inventare nuove categorie di premi, come “Il film più disturbante” o “Il più innovativo”. Qualcosa di inedito ci sarà, dal 2025: il premio al Miglior casting. Per la fantasia che chiede Canova, ci vorranno molti più anni.

I momenti da Oscar

Lo spettacolo del resto è sempre quello. Jimmy Kimmel, alla sua quarta edizione da presentatore, ha aperto ricordando l’affaire Barbie, cioè l’esclusione di Margot Robbie dalla lista delle migliori attrici protagoniste e di Greta Gerwig dai registi. Poi ha chiamato i lavoratori dello spettacolo sul palco, ricordando che Hollywood è terra di sindacati, e ha lasciato spazio a qualche inquadratura su Messi, il cane di Anatomia di una caduta, per la gioia del pubblico a casa, che era preoccupato per uno dei migliori attori non umani degli ultimi anni.

Come unica concessione al mondo fuori da Sunset Boulevard, il segmento dell’In memoriam che ricorda le persone dell’industry morte durante l’anno si è aperto con una clip di Alexei Navalny tratta dall’omonimo documentario. Del resto, come ha osservato il New Yorker, nella scelta dei candidati di quest’anno si vede una sorta di «stanchezza politica»: i film storici presentati riguardano «vecchie battaglie, già risolte».

Rimangono quindi i sentimenti, e Billie Eilish centra l’obiettivo, prendendosi una standing ovation per la sua What was I made for (da Barbie), premiata dall’Academy. Da istituzione del cinema, sono questi i momenti ad alto tasso di emotività che fanno la gioia dello show. Che non significa non siano genuini: Da’Vine Joy Randolph ha vinto l’Oscar alla migliore attrice non protagonista per il suo ruolo in The Holdovers e nel suo discorso, che ha fatto cadere una lacrimuccia anche al collega Paul Giamatti, ha detto: «Ho sempre voluto essere diversa e invece devo essere me stessa: vi ringrazio per quando ero l’unica ragazza nera nella classe. Grazie per avermi visto».

American fiction ha strappato la vittoria a Oppenheimer come Migliore sceneggiatura non originale: è un premio ironico, perché è un film che prende in giro quel pubblico a cui la stessa Academy strizza l’occhio. Tratto da un romanzo di Percival Everett del 2007, è la storia di uno scrittore nero che per scherzo decide di scrivere un libro con tutti gli stereotipi del ghetto che i lettori bianchi incensano come “crudi, reali”: è una denuncia del perbenismo statunitense, che offre una voce solo a chi vuole confermare una determinata narrazione.

Tenere fuori la realtà

Nonostante gli sforzi, questa è comunque l’edizione in cui è più difficile tenere la realtà fuori dalla porta. La cerimonia è partita in ritardo mentre i publicist si affrettavano a far arrivare le star sul red carpet con ogni mezzo possibile, compresi i golf cart: una manifestazione per Gaza ha infatti bloccato parte del Sunset Boulevard poco prima dell’inizio dei premi. «Mentre guardate gli Oscar, è in atto un genocidio», recitavano gli striscioni.

La cantante Billie Eilish e l’attore Ramy Youssef, tra gli altri, hanno sfilato indossando delle spille con il simbolo di “Cessate il fuoco” o con la bandiera palestinese. Anche Mark Ruffalo ha utilizzato il red carpet per denunciare quanto sta accadendo in Medio oriente, mentre Cillian Murphy ha chiesto la pace nel ritirare il suo premio. La zona di interesse, che ha vinto come Miglior film internazionale contro l’italiano Io capitano, racconta Auschwitz come quel rumore di fondo che chi opera il male ignora: il regista Jonathan Glazer nel suo discorso ha parlato di «un’occupazione che ha portato al conflitto per tanti innocenti» e delle «vittime della deumanizzazione», riferendosi alle persone uccise nella Striscia di Gaza e ai morti israeliani del 7 ottobre. «Vorrei non aver mai fatto questo film» ha detto invece il regista del documentario vincitore 20 days in Mariupol, sulla guerra in Ucraina.

La categoria documentari è stata inoltre al centro di una nuova piccola polemica: nessuno dei cinque titoli candidati era statunitense. Per il New York Times questo è «un riflesso dei gusti più ampi della sezione documentari, visto che i membri dell’Academy sono sempre più internazionali». Anche tra i registi, quattro su cinque venivano da altri Paesi, dai britannici Nolan e Glazer alla francese Triet al greco Yorgos Lanthimos.

Tra i migliori film, poi, ben due titoli europei (Anatomia di una caduta, La zona di interesse) e uno scritto in inglese e in coreano (Past Lives). Justine Triet e il marito Arthur Harari sono poi stati premiati per la sceneggiatura di Anatomia di una caduta: non presentato dalla Francia come proprio candidato al Miglior film internazionale, nonostante la vittoria a Cannes, ha trovato negli Stati Uniti un entusiasmo notevole.

Un’apertura che è un timido incoraggiamento per un’istituzione così fortemente statunitense come l’Academy, che, tra l’altro, si era fissata per il 2024 il raggiungimento di determinati obiettivi di inclusione fissando dei requisiti di diversità per le pellicole presentate. Requisiti che, nonostante le polemiche, non sono così stringenti e non riguardano solo registi e attori, ma anche i lavoratori dietro le quinte, la produzione e la distribuzione: Oppenheimer, per dire, girato da un regista bianco con un cast prevalentemente bianco e maschile, è rientrato senza problemi.

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