Venezia ha deciso. Ha deciso che il cervello di un feto nel cranio di una donna venticinquenne sia la miglior storia che abbia visto quest’anno.

Yorgos Lanthimos non è nuovo a proposte che potremmo definire eccentriche e non è nuovo neanche alle trasposizioni cinematografiche. Già con The Killing of a Sacred Deer avevamo assistito ad una riproposizione in chiave moderna della tragedia di Ifigenia in Aulide (scritta da Euripide tra il 407 ed il 406 a.C.) osservata sotto la lente di un autore come Lanthimos, il cui tocco non può che lasciare una traccia attiva e trasformativa su tutto ciò che attraversa.

Qualcosa di simile avviene con Poor Things, ultima opera del regista greco, che Venezia ha deciso di premiare con il Leone d’oro. La prospettiva adottata è quella di Bella (Emma Stone) che lo spettatore segue costantemente tanto da veder esclusa quasi ogni scena che non contempli la sua presenza.

Anche il tipo di inquadrature e le angolazioni scelte sono spesso modificate e distorte in modo tale da restituire uno sguardo (quello della protagonista) differente dallo standard a cui lo spettatore cinematografico è abituato proiettandolo immediatamente in un mondo i cui colori e le cui forme dipendono dalla relazione che instaura con lei e si intrecciano con il suo vissuto e la sua percezione della realtà.

Questo film si configura come un’opera in aperto dialogo con il libro omonimo da cui è tratto (pubblicato nel 1992 dallo scrittore scozzese Alasdair Gray) che a sua volta convoca inevitabilmente la presenza del celebre Frankenstein, o il moderno Prometeo scritto nel 1817 da Mary Shelley, ma anche alcune pellicole precedenti dirette dallo stesso regista da cui attinge per il trattamento di vari temi a lui cari (come ad esempio quello della reclusione o della creazione di mondi sperimentali le cui regole si discostano da quelle del mondo che siamo abituati a frequentare).

Questi ultimi temi vengono trattati qui in maniera speculare rispetto al modo in cui Yorgos Lanthimos è solito presentarli: infatti Bella Baxter riesce a trovare un modo a lei funzionale per evadere dalla reclusione alla quale sembrava essere destinata e l’orizzonte nel quale si muove con le sue regole deriva dalla sua capacità di costruirlo come lo desidera.

Bella è il frutto di un esperimento e riesce a crearsi (quasi come all’interno di un laboratorio) le condizioni quasi ottimali per potersi sperimentare seppur sempre costantemente vincolate ad un mondo preesistente con il quale si ritrova necessariamente a fare i conti.

Tutto ciò conduce al rapporto che si crea con l’opera, gemella ma per certi versi contrapposta, di Mary Shelley: la creatura creata da Frankenstein non ha nome, mentre la donna generata da Godwin Baxter se ne vedrà applicare più di uno (e li rinnegherà tutti); il mostro ideato nel 1817 cerca di farsi amare tentando di aderire disperatamente ad un mondo le cui regole non possono in alcun modo prevederlo né includerlo, mentre Bella (indubbiamente aiutata, ma anche in certi modi ostacolata, dal suo aspetto esteriormente armonico) se ne costruirà uno capace di accogliere il suo differente relazionarsi alle cose che incontra.

Il regista greco

LAPRESSE

Yorgos Lanthimos è innegabilmente un maestro nella creazione di mondi, difformità relazionali e morali non univoche: lo abbiamo visto in Dogtooth (2009), in Alps (2011), in The Lobster (2015), in The Killing of a Sacred Deer (2017), in The Favourite (2018) ed anche quest’ultima pellicola conferma un talento narrativo quanto immaginifico fuori dal comune che riesce a restituirci una storia scritta trent’anni fa nei termini decisamente urgenti di qualcosa che ci riguarda direttamente.

Poor Things si rivolge a noi non come può parlarci l’attuale, legato soltanto alle circostanze, ma con la stessa intensità e precisione di un classico che di secolo in secolo si concretizza in una storia contingentemente diversa, ma allo stesso tempo legata da un filo fatto di concatenazioni che la trasporta e le permette di viaggiare in avanti e indietro nel tempo e nello spazio attraversando il punto in cui noi ci troviamo.

Poor Things ci parla in una lingua sorprendente, quella slegata dei bambini che approcciano per la prima volta il mondo e devono costruirlo essendo quindi capaci di non sovrapporvi l’immagine preformata che aderisce pian piano alla mente di ognuno, una lingua sperimentale, senza orpelli e balbettata ,che è al tempo stesso la propria e di nessuno. 

© Riproduzione riservata