Sono una presenza costante nella nostra vita, l’espressione del nostro essere, il nostro modo di stare al mondo. Le parole sono centrali nelle nostre vite, perciò dovremmo instaurare con loro una vera e propria relazione amorosa, sana, libera, matura.

«Molto di quello che succede tra noi esseri umani e il lógos, la capacità di comunicare tramite le parole, è imputabile a una qualche forma d’amore», ne è convinta la sociolinguista Vera Gheno.

«Per questo mi sono inventata la parola grammamante, che nasce in opposizione a quella di grammarnazi, che sarebbero i “rigidoni” della lingua che la difendono chiudendosi dentro a una fortezza di certezze. I grammamanti, invece, sono persone che si concentrano non su come si devono dire le cose ma su come si possono dire le cose, per citare Tullio De Mauro. 

Con questa apertura recuperano la possibilità di una relazione amorosa con le parole, una relazione basata sul benessere reciproco, capace di reggere la complessità. I grammarnazi vedono la lingua come una fanciulla in pericolo da difendere e salvaguardare, intrattengono con lei una relazione basata su un morboso senso del possesso.

I grammamanti, invece, considerano la lingua come un o una partner che sa il fatto suo e va lasciata vivere. Si può quindi passare dalla salvaguardia, dalla difesa a un amore maturo, basato sul rispetto?». 

Il libro 

Per rispondere a questa domanda Vera Gheno ha scritto Grammamanti. Immaginare futuri con le parole (Einaudi 2024). «Un libro più poetico che scientifico, che tenta di realizzare ciò che predicava De Mauro, far innamorare le persone della lingua oltre che insegnargliela. Mi dispiace che tanti abbiano relazioni complicate con il proprio patrimonio linguistico. Si arrabbiano davanti a un neologismo, un giovanilismo o un forestierismo.

Spesso colgo nelle persone un senso di angoscia nei confronti della propria lingua, come se l’italiano fosse in pericolo, stesse scomparendo e dovessimo salvarlo. Ma una lingua non va difesa: va amata».

La sociolinguista, che ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca e che insegna, da ricercatrice, all’università di Firenze, ha scoperto ben presto di essere una grammamante.

«Sono cresciuta bilingue, poi trilingue, quadrilingue» con un padre veneto e una madre ungherese, «tra l’Italia, l’Ungheria, la Finlandia e l’Australia. Oggi ho una relazione viscerale con l’ungherese, ma è l’italiano l’unica che amo davvero, la lingua nella quale sono cresciuta, in cui mi sento più a casa. Ad ogni modo, il fatto di aver vissuto a cavallo tra diverse lingue mi ha regalato un’istintiva curiosità nei confronti delle parole e dei fenomeni linguistici».

L’epifania però è avvenuta leggendo Etnografia del parlare quotidiano di Alessandro Duranti: «Il linguaggio non serve solo per descrivere il mondo, ma anche per cambiarlo». Oggi Vera Gheno è convinta del potere delle parole.

«È evidente che la realtà influenzi la lingua, ma si tende a sottovalutare l’impatto della lingua sulla realtà. Non esistono formule magiche, tuttavia le parole contribuiscono a modificare il modo in cui vediamo le cose e, di conseguenza, ci fanno venir voglia di cambiare le cose stesse».

La lingua quindi diventa uno strumento fondamentale per leggere e rileggere una realtà sempre più complessa, per far luce su ciò che spesso la società rilega ai margini, per nominare chi prima non aveva un nome, permettendogli così di esistere. «Per esempio, per me il pregio dello schwa non è tanto la possibilità di entrare nell’uso comune e quindi nelle grammatiche, ma di evidenziare l’esistenza di un’istanza, quella della diversità di genere, che era sconosciuta ai più. Quando si è iniziato a parlare di schwa si è scoperta l’esistenza delle persone non binarie».

Atto di resistenza

Da qui nasce l’esigenza di un linguaggio attento e rispettoso nei confronti delle diversità, cioè di tutte quelle caratteristiche umane che potrebbero portare alla discriminazione. Non si tratta solo di diversità di genere, ma anche di etnia, orientamento sessuale, estetica del corpo e disabilità. Per questo Vera Gheno propone un linguaggio ampio più che inclusivo.

«Il vocabolario Zingarelli definisce l’inclusività come la capacità di includere, accogliere, non discriminare. È chiaro che questa definizione prende in considerazione un solo punto di vista, che è quello di chi include, di chi accoglie e non discrimina. Non ci viene detto nulla sui desideri e le volontà di chi viene accolto, incluso e non discriminato. Ecco perché Fabrizio Acanfora, studioso della diversità, parla piuttosto di convivenza delle differenze. Seguendo lo stesso ragionamento io propongo un linguaggio ampio, attento a tutte le persone percepite come diverse».

La lingua inoltre permette di ripensare alcune consuetudini linguistiche che rivelano una certa cultura collettiva, come per esempio l’uso del maschile sovraesteso che viene spesso considerato una forma neutra. «Ma neutro non è. Oggi studi empirici ci dicono che il maschile, anche quando usato come neutro, viene prima di tutto decodificato dal nostro cervello come semplice maschile e solo successivamente come possibile forma sovraestesa».

Allo stesso modo il maschile viene usato per le qualifiche professionali anche da molte donne, a partire dalla premier Giorgia Meloni che preferisce farsi chiamare il presidente. «Il sistema patriarcale è interiorizzato e accettato anche da moltissime donne, che non considerano importante usare i femminili professionali. Le motivazioni sono varie: questione di eufonia, cioè suona meglio il maschile e la domanda è perché? Perché maestra sì e ministra no?. Poi ci sono le donne che ritengono il maschile più prestigioso, il che rimanda alla questione della percezione sociale della donna nella società; ad altre donne invece la questione non interessa e accettano il maschile per quieto vivere.

Non mi stupisce quindi la scelta di Meloni, uno standard della sua compagine politica, che assegna alla donna un ruolo ben preciso, e dei gruppi conservatori che lasciano emergere singole donne. È quella che Chiara Bottici, filosofa anarco-femminista, definisce sindrome dell’ape regina, cioè l’emergere solitario, in un contesto maschilista, di una donna singola che non mette in discussione i meccanismi di potere tipici del patriarcato, non dà fastidio al sistema e perciò ne è permessa l’emersione».

La lingua può diventare quindi un «atto di resistenza democratica, inteso come possesso trasversale dello strumento linguistico che rende più difficile il diffondersi dei populismi e dà alle persone più possibilità per smascherare gli artifici del potere».

Contro i pregiudizi 

Vera Gheno inoltre si impegna a decostruire i pregiudizi sulla nostra lingua, tra cui quello sul gergo giovanile spesso accusato dagli adulti di essere povero, volgare, influenzato dalla musica trap.

«È un cliché vecchio come il mondo: già Platone nel terzo libro della Repubblica se la prendeva con i giovani del tempo. Oggi dovremmo piuttosto riconoscere che la distanza intergenerazionale è aumentata e recuperare la relazione con il fanciullino che è in noi».

Quindi non scandalizzarsi davanti all’ibridismo linguistico delle nuove generazioni che switchano costantemente tra anglicismi, dialettismi e neologismi provenienti dal mondo social e dall’immaginario urbano. Il suo è un invito a «riscoprire una lingua tesa a creare ponti, non a innalzare muri. Ad abbandonare il linguapiattismo, per cui le parole sono sacre, immobili e immutabili».

A considerare la lingua come uno strumento potentissimo per conoscere sé stessi e costruire la società migliore che vorremmo. Come ogni amore però richiede impegno, così anche la nostra relazione con le parole va curata. «È una fatica che viene ripagata», conclude Vera Gheno, «perché grammamare ci fa vivere meglio».


Grammamanti. Immaginare futuri con le parole (Einaudi 2024, pp. 160, euro 15) è un libro di Vera Gheno 

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