Che succede a Kabul, si chiede un occidente sempre più distratto e con un pesante senso di colpa per come ha lasciato il paese in mano ai Talebani. Un capo delle forze di sicurezza talebane a Kabul, Hamdullah Mokhlis, è tra le vittime dell’attentato sferrato dall’Isis-K contro l’ospedale militare della capitale afghana in cui sono morte almeno 19 persone.

Gli attentati avrebbero dovuto cessare con l’arrivo dei Talebani al potere ma così non sta avvenendo e l’instabilità continua a essere presente come costante della storia di questo travagliato paese. Mokhlis era un membro del potentissimo clan Haqqani, che controlla una vasta area di confine tra Afghanistan e Pakistan, negli anni scorsi autore di numerosi attentati contro le truppe americane e occidentali.

Mokhlis era attualmente a capo delle brigate scelte dei Talebani, forze speciali chiamate “Badri 313”. Al momento è il più alto ufficiale talebano caduto vittima di un attentato dell’Isis-K nel paese. Come è possibile?

Una strana unione

L’attentato a Kabul si inquadra in un contesto che vede alcuni reparti dell’ex esercito afghano congiungersi alle forze fondamentaliste e più radicali dei Talebani dell'Isis-K. Questa strana unione sul terreno si sta verificando in assenza di “signori della guerra” capaci di arruolarli direttamente così come avveniva in passato.

Questi reparti dell’ex esercito afghano stanno cercando di formare un’alleanza temporanea in funzione anti talebana. Un segnale molto pericoloso e inquietante per il regime che aveva promesso di riportare il paese in una situazione di pace interna. Senza dimenticare la terribile crisi economica.

L’Isis-K ha inoltre rivendicato l’attentato del 2 novembre davanti all’ospedale militare Sardar Mohammad Daud Khan di Kabul, costato la vita a 23 persone, tra cui tre donne, un bambino e tre soldati dei Talebani. Lo ha confermato sui social media lo stesso portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid. 

L’analisi di Petraeus

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Per capire questa confusa situazione può essere utile riportare il pensiero di David Petraeus, profondo conoscitore dell’Afghanistan, già comandante delle operazioni militari statunitensi in Iraq e Afghanistan ed ex direttore della Cia.

Intervenuto in collegamento online a un convegno svoltosi all’Università di Pavia, ha detto: «Il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan è avvenuto in base a precedenti accordi. Visto quanto è successo durante l’estate, non si è voluto lasciare militari e diplomatici in una situazione molto difficile.

Ma è stato un ritiro veloce e in parte improvvisato, che ha prodotto la situazione caotica che si vive oggi nel paese anche a causa della manifesta incapacità del regime talebano».
L'incontro, dal titolo “Testimonianze da e sull'Afghanistan. Per non dimenticare”, è stata l’occasione per lanciare Bridgenet, una rete nata a sostegno dei corridoi umanitari per i profughi afghani. 
Petraeus è stato intervistato da Anna Prouse, giornalista e attivista che ha lavorato otto anni in Iraq, ora è impegnata per l'Afghanistan. «Non è stata fatta nessuna valutazione dell’impatto che poteva produrre il ritiro dall’Afghanistan – ha aggiunto l’ex direttore della Cia –. C’è stato un attacco simultaneo dei Talebani in tutte le zone del paese.

Il presidente americano Joe Biden non si aspettava un crollo così veloce delle truppe afghane. In teoria il presidente avrebbe potuto rifiutarsi di applicare l’intesa per il ritiro, così come ha fatto retromarcia sugli accordi per il clima: ma ha deciso di non farlo».

Petraeus non ha detto di più ma forse avrebbe preferito un ritiro meno devastante e così poco onorevole. Si è però soffermato sulla drammatica situazione economica che si vive oggi in Afghanistan: «Siamo di fronte a una catastrofe alimentare di proporzioni immani, con raccolti persi nelle campagne e fame diffusa in tutto il paese. In qualsiasi momento le luci di Kabul potrebbero spegnersi, anche perché non ci sono soldi per pagare l’elettricità che arriva dall’Asia centrale. È un quadro drammatico, soprattutto con l’arrivo dell'inverno».

La domanda che si pongono gli analisti è la seguente: riusciranno i Talebani a fronteggiare i nemici interni, la situazione economica drammatica e il forte isolamento internazionale?

La situazione economica precipita

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Che la situazione sia vicina al baratro è sempre più evidente. I Talebani hanno annunciato il divieto di usare valuta estera in Afghanistan. Lo riferisce Tolo News spiegando che i negozianti, i commercianti e qualunque cittadino violerà la disposizione verrà punito. La situazione economica afghana e gli interessi nazionali, hanno spiegato i Talebani, impongono che «tutti gli afghani utilizzino nelle transazioni la valuta locale».

Secondo la Camera di commercio e investimento afghana, tuttavia, l’uso della divisa locale, l’afghani, è adatto alle attività quotidiane, ma le transazioni maggiori dovranno comunque essere effettuate in dollari. Nelle stesse ore, riferisce ancora Tolo News, la Banca centrale di Kabul ha fissato il limite settimanale dei prelievi bancari a 400 dollari e 30mila afghani.

Dal loro ritorno al potere a Ferragosto, gli “studenti coranici” hanno richiesto inutilmente lo sblocco dei fondi congelati all’estero della Banca centrale di Kabul, principalmente negli Usa, che ammonterebbero a circa 9 miliardi di dollari.

Il gasdotto Tapi

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In questo quadro a tinte fosche il ministro degli Esteri del Turkmenistan, Rashid Meredov, ha incontrato a Kabul nei giorni scorsi esponenti del governo talebano ad interim per discutere del progetto del gasdotto Tapi (che dal Turkmenistan attraverserebbe Afghanistan e Pakistan per arrivare in India, con una capacità di 33 miliardi di metri cubi), oltre che di collegamenti ferroviari ed elettricità.

Un accordo che darebbe ossigeno alla devastata economia afghana. Il presidente del Turkmenistan, Gurbanguly Berdymukhammedov, caldeggia il completamento del gasdotto dal suo arrivo al potere avvenuto 15 anni fa. Il Turkmenistan è il quarto paese al mondo per riserve di gas. Meredov ha incontrato la sua controparte, Amir Khan Muttaqi, il vicepremier Abdul Salam Hanafi, e il ministro della Difesa facente funzione, Mawlawi Mohammad Yaqoob, «responsabile diretto della sicurezza di Tapi».

La sicurezza del cantiere è stato, nel recente passato, uno dei temi di scontro fra i Talebani e i governi Karzai e Ghani. Il Pakistan e l’India riceverebbero 14 miliardi di metri cubi di gas ognuno e l’Afghanistan 5, oltre che incassare 500 milioni di dollari l’anno in diritti di transito.

Il costo del progetto, secondo stime non recenti, è pari a 10 miliardi di dollari. Hanno visitato Kabul da metà agosto anche i ministri degli Esteri di Kazakistan e Uzbekistan. Forse è proprio questo l’oggetto del contendere tra le forze in campo in Afghanistan: la spartizione del ricco bottino del pedaggio del gas.

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