La fuga del personale diplomatico e il ritiro delle truppe americane e della Nato dopo la caduta di Kabul sembra aver colto alla sprovvista la comunità internazionale ma non i Talebani. E «ora dobbiamo vivere con le conseguenze della nostra fretta» scrive Condoleezza Rice in un articolo pubblicato sul Washington Post.

Rice, prima National security advisor poi segretario di Stato, è stata uno dei volti più noti della “War on terror” iniziata da George W. Bush all’indomani degli attentati dell’11 settembre del 2001.

Oggi «vivere con le conseguenze della nostra fretta» per Angela Merkel ed Emmanuel Macron significa evitare a tutti i costi l’ondata migratoria del 2015, quando un milione di persone, di cui la maggioranza siriani e afghani, arrivarono in Europa. Per evitare un altro esodo, gli stati europei sono disposti a finanziare i paesi limitrofi all’Afghanistan per accogliere i profughi.

Tra questi c’è il Pakistan, una potenza nucleare fragile che si trova ad affrontare il rafforzamento di gruppi fondamentalisti locali, il cui consenso è aumentato tra la popolazione. Ma che ruolo ha giocato il Pakistan negli ultimi venti anni?

Legami storici

I rapporti tra i Talebani afghani e i servizi militari pakistani datano decenni. Iniziano con l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, un conflitto durato oltre dieci anni e che ha permesso ai servizi segreti pakistani (Isi) di accrescere il loro ruolo strategico nell’area. Lungo il confine di 2.670 chilometri il Pakistan, grazie all’aiuto della Cia e dell’esercito americano, ha fornito armi, soldi e viveri ai mujaheddin durante la guerra. Sono decine di migliaia i combattenti afghani che sono stati addestrati da Islamabad prima di imbracciare i kalashnikov al di là del confine.

Il ritiro sovietico ha lasciato alle spalle un paese in macerie e un terreno fertile per la guerra civile conclusa nel 1996 con la presa del potere dei talebani guidati dal mullah Mohammed Omar. La maggior parte di questi si sono formati nelle scuole coraniche del Pakistan, paese da dove, ancora una volta, hanno attinto risorse economiche e militari per la loro avanzata. L’obiettivo del Pakistan è sempre stato chiaro: cercare di influenzare la politica afghana e garantirsi un importante alleato per contrastare l’influenza indiana nella regione.

L’Emirato islamico dell’Afghanistan ha avuto vita breve e si è concluso con l’intervento statunitense del 2001. Dopo gli attentati dell’11 settembre il presidente pakistano Pervez Musharraf si è trovato di fronte a una scelta decisiva: continuare a sostenere i Talebani che davano rifugio ai vertici di al Qaida, oppure diventare un importante avamposto della guerra al terrorismo. Di fronte alla sua titubanza George W. Bush ha lanciato un monito durante un discorso al Congresso: «O con noi o con i terroristi». Musharraf non aveva molta scelta. La sua decisione di collaborare con il contingente Usa ha però suscitato la rabbia di vari gruppi fondamentalisti attivi nel paese come il Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) da sempre alleato con i Talebani afghani. Ma sono stati in molti ad accusare il Pakistan di volere stare con «due piedi in una scarpa».

Non è un caso se diversi leader talebani e di al Qaida hanno trovato rifugio tra le montagne pakistane, nelle città di Quetta e Karachi, dove hanno proprietà e mandano a scuola i propri figli. I timori delle forze occidentali su una presunta connivenza tra le autorità pakistane e i Talebani sono cresciuti negli anni. A confermarlo è anche un report riservato della Nato pubblicato nel 2012 dalla Bbc, dove si legge che l’Isi intratteneva relazioni dirette con i Talebani afghani e conosceva i loro nascondigli.

Il fondamentalismo

Nel 2004 l’esercito pakistano con il sostegno degli Stati Uniti ha lanciato un’offensiva militare nel Waziristan, una regione tribale situata nella parte nord-occidentale del paese al confine all’Afghanistan. Si tratta di un’area conservatrice, dove hanno trovato rifugio alcuni vertici di al Qaida favoriti dallo scarso controllo del territorio da parte della polizia locale. Il conflitto va avanti da più di 17 anni contro vari gruppi terroristici tra cui, appunto, il Ttp. Qui sono stati catturati e uccisi diversi combattenti dell’organizzazione terroristica di bin Laden, tra cui Khalid Shaykh Muhammad, coinvolto nell’omicidio del giornalista americano del Wall Street Journal, Daniel Pearl, decapitato a Karachi nel 2002 e i cui assassini sono stati liberati dal Pakistan lo scorso gennaio.

A dieci anni dall’intervento militare in Afghanistan le relazioni tra Pakistan e Stati Uniti sono arrivate quasi al punto di rottura. Alla fine del 2011 il paese guidato da Asif Ali Zardari decide di fermare le operazioni dei droni americani sul suo territorio dopo una serie di eventi sanguinari in cui morirono civili e agenti pakistani. Ma a indispettire le autorità nazionali era stata la missione segreta americana per neutralizzare Osama bin Laden, localizzato nella città di Abottabad. Un’operazione tenuta nascosta a dimostrazione della scarsa fiducia tra gli apparati militari dei due paesi. Per molti, infatti, non è un caso se i Navy seals hanno ucciso il leader di al Qaeda in un’abitazione non lontana da un’accademia militare pakistana. Le tensioni tra i due paesi sono culminate nelle dichiarazioni dell’ammiraglio Mike Mullen, il presidente dei capi di Stato maggiore, che ha accusato pubblicamente l’Isi di essere dietro gli attacchi rivendicati dalla rete Haqqani a un convoglio Nato e all’ambasciata americana di Kabul del 2011. La rete Haqqani è uno dei network più sanguinari e temuti nella regione. È nato in una madrasa nel Peshawar e ha il suo quartier generale nel Waziristan. Fin dai primi anni Duemila la rete è stata guidata da Sirajuddin Haqqani e ha goduto di ottimi rapporti anche con i talebani. La guerra al terrorismo ha portato nelle casse di Islamabad un flusso incessante di finanziamenti.

Dal 2002 gli Stati Uniti hanno versato al Pakistan oltre 14 miliardi di dollari per condurre operazioni militari. Tuttavia, l’opacità dei rapporti delle forze di sicurezza pakistane con i Talebani ha portato a una diminuzione dei fondi e del sostegno militare statunitense che è sceso del 60 per cento negli anni dal 2010 al 2017.

La questione è stata presa di petto anche dal presidente Donald Trump che in un tweet del 1° gennaio 2018 ha accusato le istituzioni pakistane di dare rifugio ai terroristi e di fornire poco aiuto ai marines americani. Una situazione considerata inaccettabile dal presidente repubblicano che ha deciso di trattenere un finanziamento di 300 milioni di dollari e mettere pressione alle autorità pakistane.

Non solo la sicurezza, ma anche i progetti di sviluppo locale dipendono quasi interamente dai finanziamenti esteri. La Banca mondiale ha attualmente in Pakistan un portfolio di 11,66 miliardi di dollari per sostenere riforme volte a rafforzare le istituzioni, l’istruzione, l’agricoltura e lo sviluppo urbano. Il Fondo monetario internazionale, invece, ha stanziato nel 2008 un prestito di 7,6 miliardi a cui si è aggiunto un altro miliardo nel 2019 per fronteggiare il peggioramento delle condizioni economiche del paese.

Ma per ottenere nuove risorse economiche servono riforme, soprattutto per contrastare la corruzione dilagante nel paese, situato nella 124esima posizione di 180 dal World Transparency Index tra i paesi più corrotti al mondo. Dal Pakistan sono decollati anche gli aerei con a bordo i leader talebani diretti ai colloqui di Doha per dare vita a un governo di transizione e a un cessate il fuoco permanente, ma ora quei colloqui sembrano un lontano ricordo.

Il rafforzamento dei Talebani e una loro eventuale riabilitazione a livello internazionale inizia a far paura anche al Pakistan, dove i gruppi fondamentalisti presenti sul territorio strizzano l’occhio ai “cugini” afghani. Il Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) è uno di questi e riunisce sotto la sua ala tanti altri movimenti armati minori. Nel 2014 è stato l’autore di uno degli attentati più cruenti avvenuti nel paese, quando in un assalto a un istituto scolastico morirono 141 persone.

Secondo i dati delle Nazioni unite, l’organizzazione conta un numero di combattenti che si aggira intorno alle 6mila unità. Agli attacchi armati si somma la propaganda di nuovi partiti islamisti radicali nati negli ultimi anni e che stanno ottenendo sempre più consenso tra la popolazione, come il Tehreek-e-Labbaik Pakistan.

Il rischio, oggi, è che il Pakistan non sia un paese sicuro neanche per i milioni di profughi afghani pronti a varcare il confine. Il mese scorso la polizia locale di Karachi ha ritirato alcuni libri scolastici usati nelle scuole elementari in cui Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace nel 2014, veniva raffigurata come un’eroina nazionale.

Un campanello di allarme che dovrebbe risuonare nelle cancellerie europee, ancora una volta pronte a delegare ai paesi terzi il sostegno a una crisi umanitaria a qualsiasi prezzo.

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