Ricolpo di stato in Mali, a pochi giorni della visita a Bamako del ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Dal putsch di agosto scorso sono passati solo 9 mesi e siamo daccapo: i militari non vogliono lasciare il potere.

Appena il presidente e il primo ministro della Transizione (imposti dalla Francia, dall’Unione africana e dalla comunità internazionale) hanno cercato una maggiore autonomia, i “cinque colonnelli” li hanno messi agli arresti nella cittadella militare di Kati, a 15 chilometri dalla capitale. Dopo un paio di giorni di discussioni e pressioni, il presidente Bah N’Daw si è dimesso insieme al primo ministro e i due sono stati rilasciati, ma ora capo dello stato è divenuto il vicepresidente Assimi Goita, il più autorevole tra i golpisti. Inizia una fase diversa con una probabile nuova geometria delle alleanze tra i principali attori politici del paese.

Ci si chiede se sarà confermata la transizione breve preferita dalla comunità internazionale oppure i militari si prenderanno più tempo, come tutti li sospettano di volere. Da qualche settimana a Bamako si muovevano due correnti contrastanti: da una parte quella delle voci insistenti sul malumore dei militari nei confronti dei civili; dall’altra quella di chi – come se nulla fosse – si preparava alle prossime presidenziali con un florilegio di candidati. Ora che le voci si sono trasformate in un reale pronunciamento, non è detto che tutto continui come prima.

Il destino dei colonnelli

D’altronde i colonnelli non vogliono finire come il capitano Amadou Sanogo che fece in Mali il colpo di stato del 2012 lasciandosi tuttavia intrappolare nella ragnatela dei compromessi internazionali tessuta dall’abile presidente del Burkina Faso Blaise Compaoré, il quale progressivamente lo spinse a restituire i poteri ai civili. Pochi mesi dopo Sanogo finì sotto processo. Consapevoli di cosa rischiano, gli attuali colonnelli non commetteranno lo stesso errore.

Le tensioni tra Goita e N’Daw erano iniziate il 14 maggio quando il primo ministro Moctar Ouane era stato confermato al suo posto con il compito di formare un nuova compagnie ministeriale. L’errore più grave è stato l’aver voluto togliere dalle mani dei golpisti i ministeri chiave della Difesa e della Sicurezza, cambiandone i titolari (rispettivamente i colonnelli Sadio Camara e Modibo Koné, due dei cinque golpisti di agosto) senza consultazioni previe con il vicepresidente Goita.

Anche il generale Souleyman Doucouré, indicato come nuovo ministro della Difesa, è ora tenuto agli arresti a Kati. A questo punto i militari sono molto irritati con la comunità internazionale, sia africana che europea, e sarà difficile portarli a più miti consigli. Tra l’altro hanno già fatto trapelare di non essere contenti del confronto con ciò che è accaduto recentemente in Ciad: un evidente doppiopesismo con un’aperta tolleranza (se non appoggio) all’autogolpe militare di N’Djamena mentre in Mali apparentemente si fa l’opposto. Nulla di peggio che dei militari offesi.

L’intervento italiano

Anche per l’Italia tutto da rifare: durante la sua visita Guerini aveva incontrato il vicepresidente Goita assieme al generale Doucouré ora imprigionato. L’incertezza della situazione riguarda in particolare la Francia: è la seconda volta che i militari del Mali attuano un colpo di stato senza che i francesi se ne avvedano o riescano a impedirlo, malgrado la comune partecipazione alle operazioni nel nord del paese. La prudenza italiana nell’accettare in questi anni di partecipare alla missione Barkhane in Mali si giustifica una volta di più. Ora occorre vedere quale sarà il nuovo equilibrio delle forze.

In Mali vi sono cinque protagonisti politico-militari della grave crisi in cui il paese è caduto dal 2011. Il primo attore di cui tener conto è evidentemente l’esercito. Non efficienti come quelle ciadiane, si tratta comunque di truppe nazionali non legate a una sola etnia (com’è il caso di N’Djamena) ma rese compatte da anni di difficile conflitto al nord.

I militari maliani hanno evidenti ambizioni politiche e sfruttano la bassa stima dell’opinione pubblica verso la classe politica del paese. Occorre tener conto che, malgrado i suoi insuccessi sul terreno, l’esercito maliano rappresenta una fetta della popolazione anche per gli interessi economici a cui è legato. Difatti molti maliani devono la loro sopravvivenza al sistema economico di scambi e commerci legato ai militari.

Il secondo soggetto è la classe politica, composta da vari partiti, notoriamente molto rissosa e spesso incapace di trovare sintesi coalizionali atte a governare il paese stabilmente. Tuttavia non va sottovalutata la volontà democratica maliana, avvezza alla polemica e al dibattito pubblico ma anche gelosamente legata alle prerogative costituzionali dell’assemblea nazionale.

Per più di un decennio, dopo la dittatura di Moussa Traoré che restò al potere dal 1968 al 1991, il Mali è stato un esempio di democrazia e di alternanza per tutta l’Africa. Ciò ha radicato tra la gente un acuto senso delle proprie prerogative soprattutto nel momento elettorale.

Di conseguenza il terzo attore è proprio la piazza, da alcuni anni in mano al movimento politico del 5 giugno, anche chiamato Raggruppamento delle forze patriottiche. Comunemente denominato M5, si tratta della versione africana del populismo: una corrente fortemente protestataria, lontana dai partiti tradizionali (anche se alcuni di essi vi hanno aderito) con tendenze ribelliste e una capacità di mobilitazione fuori dal comune. Il M5 era stato il vero protagonista delle grandi manifestazioni contro il governo del presidente eletto Ibrahim Boubakar Keita (Ibk), rovesciato poi dal colpo militare quando era già molto indebolito. Inizialmente il movimento aveva gioito del golpe, considerandolo quasi una propria realizzazione, per poi doversi ricredere nel periodo successivo non vedendo sufficientemente riconosciuto il proprio ruolo di opposizione. Ciò ha creato dei malumori e sottoposto l’M5 a varie tensioni e scissioni.

Il dialogo coi populisti

In queste ore i militari “rigolpisti” stanno offrendo un’alleanza strategica al M5, concedendo al movimento il posto di premier, in modo da ridare spinta propulsiva alla loro iniziativa politica e ritrovare anche una legittimità popolare. È da vedere se l’M5, già scottato dalle delusioni di agosto 2020, accetterà tale manovra.

Accanto all’M5 esiste un’altra parte della piazza rappresentata dal movimento islamico dell’imam Dicko, una volta leader del consiglio degli ulema del Mali e ora battitore libero. Rigorista senza essere wahabita, conservatore ma capace di alleanze con i laici dell’M5, l’imam Dicko è la voce più autorevole dell’islam maliano, favorevole tra l’altro al negoziato con i jihadisti. A lui i militari hanno spesso chiesto consiglio e pare sia stato Dicko a mediare tra colonnelli e Unione africana nel 2020, indicando come premier proprio quel Moctar Ouane ora caduto in disgrazia.

Il quarto protagonista sono i movimenti ribelli autonomisti tuareg e i loro alleati arabi: il Cma (coordinamento dei movimenti dell’Azawad, tuareg) e la cosiddetta piattaforma (ribelli arabi alleati) che occupano Kidal e alcune zone del nord e rappresentano i primi interlocutori del governo maliano in zona di guerra. Con loro Bamako ha firmato gli accordi di Algeri che tuttavia non possono essere implementati a causa della guerra contro i jihadisti. Va considerato che una parte degli stessi componenti del Cma era stata inizialmente alleata ai jihadisti. Accanto a loro si aggiungono gli amici-nemici delle milizie lealiste (chiamate Ganda), formalmente schierate dalla stessa parte (cioè contro i jihadisti) ma de facto avversari mortali perché concorrenti diretti nel controllo del territorio.

Infine il quinto attore sono i jihadisti, militarmente forti tanto da sfidare l’esercito francese ma anch’essi divisi in due movimenti: da una parte lo Jnim (gruppo di difesa dell’islam e dei musulmani) di marca qaedista, guidato dal tuareg Iyad Ghali e aperto alla possibilità del negoziato con Bamako. Dall’altra lo Stato islamico del grande Sahara, totalmente contrario a ogni accordo. Senza tener conto di tale complessità è molto difficile se non impossibile avventurarsi – anche soltanto un poco – nel complesso gioco delle ombre del più vasto paese saheliano.

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