All’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina si pensava che le aziende europee e statunitensi avrebbero lasciato in massa la Federazione russa, una scelta quasi obbligata per non legare il proprio marchio al paese che ha riportato la guerra in Europa.

Le cose sono andate diversamente. Secondo la Kyiv School of Economics (Kse) su 3.756 aziende occidentali che operavano in Russia a inizio 2022 solo 372 hanno lasciato il paese, subendo perdite significative a causa della cessione affrettata dei propri asset e, soprattutto, senza ottenere particolari benefici in termine di immagine.

Le imprese occidentali adesso si dividono tra chi ha sospeso gli investimenti ma continua portare avanti le proprie attività in attesa di decidere cosa fare, e chi pianifica di espandersi come se la guerra non fosse mai iniziata. Di sicuro c’è solo che andarsene è più oneroso che restare, e che la Russia ha il potere di guadagnare sia dall’esodo che dalla permanenza di queste società.

Mosca infatti ostacola il disimpegno delle imprese dei paesi considerati “non amichevoli” poiché la loro presenza fa bene all’economia e permette ai russi di continuare a consumare beni a cui sono abituati. Le autorità hanno imposto uno sconto di almeno il 50 per cento sul valore degli asset che vengono ceduti, e una tassa aggiuntiva pari al 10 per cento dell’importo totale della transazione. Tuttavia, queste condizioni permettono al Cremlino di usare la partenza delle aziende occidentali come uno strumento per distribuire potere e ricchezza nel sistema del capitalismo russo, offrendo a un gruppo selezionato di magnati la possibilità di acquisire a prezzi irrisori beni stranieri e interi sistemi commerciali.

Le figure emergenti

I casi che hanno fatto più notizia sono quelli di Danone e Carlsberg, espropriate dei propri asset a luglio dell’anno scorso durante le trattative di cessione a controparti russe e affidate a dei fedelissimi di Vladimir Putin, in quella che è sembrata una dimostrazione di cosa può accadere a chi decide di andarsene senza sottostare alle condizioni di Mosca. Tra queste persone ci sono alcuni dei soliti oligarchi vicini al Cremlino, ma anche una élite imprenditoriale emergente composta da uomini d’affari di medio rango che avevano dei legami con il governo. I giornalisti di The Bell – notiziario economico indipendente russo – hanno elencato 41 oligarchi che si sono arricchiti con l’esodo delle aziende occidentali, in una dinamica che ricorda la spoliazione degli anni Novanta della Russia post-sovietica.

In cima alla lista ci sono Alexander Varshavsky e Kamo Avagumyan, proprietari del colosso russo della vendita e noleggio di autovetture Avilon, una società che ha contratti con le forze di polizia e gli apparati di sicurezza. Fino all’invasione dell’Ucraina i due imprenditori erano figure importanti ma non dominanti nel mercato dei concessionari di auto, la guerra gli ha permesso di appropriarsi degli stabilimenti di Volkswagen e Hyundai trasformandoli nei più grandi proprietari di fabbriche auto della Russia. Lo stabilimento di Volkswagen è stato comprato per un dodicesimo del valore di mercato, quello di Hyundai gli è costato solo 108 dollari.

A impossessarsi di stabilimenti per la produzione di auto è stato anche Andrei Olkhovsky, ex oligarca dei metalli non ferrosi, delle costruzioni e dell’immobiliare. L’anno scorso la sua Avtodrom ha acquisito l’attività russa di Mercedes-Benz, ottenendo secondo le sue stesse parole «la fabbrica più avanzata che si possa immaginare». Mercedes-Benz ha conservato un’opzione per il riacquisto, ma il futuro della linea di produzione dipende soprattutto da cosa decideranno di fare gli investitori cinesi contattati da Olkhovsky.

Un’altra figura emergente è Arsen Kanokov, ex politico locale ora magnate del settore alberghiero e della ristorazione che adesso è diventato anche il principale azionista delle filiali russe di McDonald, Starbucks, Domino’s Pizza e Obi. Uno degli azionisti di minoranza di Obi e Starbucks invece è Adam Delimkhanov, il braccio destro del leader ceceno Ramzan Kadyrov. Secondo un’inchiesta di Bloomberg il più grande acquirente di beni lasciati dalle società occidentali è Ivan Tavrin, che nel primo anno di guerra sembra abbia investito l’equivalente di 2,3 miliardi di dollari. Tavrin è un’oligarca dei media tra le proprietà di cui si è impossessato ci sono tutti gli impianti in Russia del colosso tedesco della chimica Henkel.

Il sistema di Putin

La lista di The Bell è lunga e copre tutti i settori dell’industria e dei beni di largo consumo, delineando i contorni di un nuovo sistema del potere che deve le sue fortune al Putin, e a lui deve rispondere.

Quando sono state introdotte le prime sanzioni si sperava che avrebbero spinto i grandi oligarchi a fare pressione sul Cremlino affinché ponesse fine alla guerra, ma non successo niente del genere. Oggi come vent’anni fa è ancora Putin a decidere chi e come può arricchirsi ed è molto difficile – per non dire impossibile – separare il regime dal controllo sul sistema economico. In Russia non c’è mai stata una élite imprenditoriale indipendente dal potere politico in grado di influenzare le decisioni del Cremlino.

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