A sorpresa Israele ha reagito al raid iraniano e ha colpito nella notte tra giovedì e venerdì, con mini droni, una base aerea militare vicino alla città di Esfahan, nell'Iran centrale. «Un segnale all’Iran che Israele ha la capacità di colpire all’interno del paese», ha detto una fonte israeliana al Washington Post commentando l’attacco limitato sul territorio iraniano.

Un raid simbolico, dunque, per evitare l’escalation del conflitto che avrebbe colpito una base di vecchi caccia F14 risalenti all’èra dello scià, quando Teheran era, fino al 1979, anno della rivoluzione khomeinista, il “bastione americano” nell’area mediorientale.

Ma altre fonti della dissidenza all’estero dicono che il raid alla base aerea sia stato in realtà un depistaggio e che il vero obiettivo fosse una base di stoccaggio dei missili lanciati nell’ultimo strike contro la base aerea israeliana di Nevatim dall’Iran. Gli impianti nucleari presenti a Esfahan sarebbero stati fuori dal bersaglio. Il portavoce del Consiglio di presidenza del parlamento iraniano, Nezamedd Mpusavi ha detto che le esplosioni a Esfahan «sono state ridicole».

Difficile saperne di più perché le autorità iraniane ammettono che sarebbero stati droni americani o israeliani di sorveglianza, ma smorzano i toni e minimizzano l’entità dei danni, annunciando indagini supplementari, escludendo ritorsioni ed evitando di accusare direttamente Tel Aviv e lasciando la porta aperta persino all’ipotesi di forze dissidenti interne, mentre Israele, come di consueto in questi casi, tace e non smentisce né conferma. Salvo Itamar Ben Gvir, ministro israeliano della Sicurezza nazionale e leader di destra radicale, che ha definito su X «moscio» l’attacco di Israele all’Iran.

Il mini attacco israeliano in Iran dimostra però due cose strategiche: che Tel Aviv può colpire il territorio iraniano e che gli Stati Uniti, sono perfettamente capaci di imporre moderazione alle iniziative militari di Israele e del suo governo, se le circostanze lo rendono necessario. La domanda successiva che si pongono gli analisti riguarda la possibilità di esercitare da parte dell’amministrazione americana lo stesso grado di coercizione sull’attacco a Rafah che tutti gli alleati di Israele chiedono di fermare per evitare una carneficina che si aggiungerebbe ai 34mila morti della Striscia di Gaza, di cui la maggior parte donne e bambini.

Blinken su Rafah

A sentire il segretario di Stato, Antony Blinken, al vertice del G7 a Capri non ci sarebbero legami tra la moderazione dimostrata da Israele in Iran e l’eventuale via libera all’Idf a Rafah, dove vivono 1,5 milioni di profughi. «Voglio in primo luogo ripetere la nostra impostazione» che è quella di «evitare l’escalation e chiediamo tutte le parti di controllare le loro azioni». Su Rafah «siamo stati molto chiari: non possiamo essere favorevoli a un’operazione militare», ha detto il segretario di Stato Usa in conferenza stampa al termine del G7 Esteri a Capri. «Crediamo che si possono raggiungere gli stessi obiettivi con altri mezzi».

Quindi Netanyahu ha dovuto rinunciare all’attacco a Rafah tanto sbandierato negli ultimi mesi e alla decisa ritorsione contro la “testa del serpente” e ai suoi impianti nucleari? Di certo, per ora, ci sono solo le parole rassicuranti di Blinken che è intervenuto anche sul veto che gli Usa hanno usato all’Onu per bloccare l’ingresso a pieno titolo della Palestina nell’organizzazione: «Gli Stati Uniti vogliono arrivare allo stato palestinese; ma per avere una pace sostenibile, duratura e di lunga durata e per rispondere alle giuste aspirazioni del popolo palestinese, allo stato della Palestina si può arrivare attraverso la diplomazia, non con l’imposizione». Quindi niente voti all’Onu, ma diplomazia. Vedremo.

Le sanzioni Usa

Intanto il Dipartimento di stato ha colpito Ben Zion Gopstein, fondatore e leader di Lehava, «un’organizzazione i cui membri sono coinvolti nella violenza destabilizzante che colpisce la Cisgiordania». Gopstein è uno dei più stretti alleati del ministro ultranazionalista della Sicurezza nazionale Ben Gvir e una figura chiave della destra radicale in Israele.

Nel mirino del Tesoro sono finite anche due entità, Mount Hebron Fund e Shlom Asiraich, «per il loro ruolo nella creazione di campagne di raccolta fondi per conto di due estremisti impegnati in attività violente, rispettivamente Yinon Levi e David Chai Chasdai, già sanzionati dagli Usa».

La conclusione del G7

Quanto al G7 dei ministri degli esteri svoltosi a Capri sotto la presidenza italiana, il comunicato finale ha partorito il classico topolino e non è andato oltre quelle che l’ong Oxfam ha definito «buone intenzioni» su Gaza: «Chiediamo il rilascio immediato degli ostaggi e un cessate il fuoco sostenibile che consenta un aumento dell’assistenza umanitaria urgentemente necessaria da fornire in sicurezza in tutta la Striscia». Nessun accenno alla possibilità di consentire ai civili palestinesi asserragliati a Rafah di poter tornare in sicurezza alle loro case o a quello che ne resta nel nord della Striscia. Senza contare che, secondo il Wall Street Journal, l’amministrazione Biden starebbe valutando una nuova fornitura di armi del valore di oltre un miliardo a Israele in aggiunta ai fondi già in discussione al Congresso. Un segnale inquietante, tutto da interpretare.

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