C’è stato un momento nel quale Nikki Haley sembrava la persona giusta per superare il trumpismo. Non sconfiggendolo direttamente, ma incamerandone alcuni aspetti per fare evolvere la proposta politica del partito repubblicano. Alla fine dell’estate 2023, la buona performance di Haley ai dibattiti con i competitor repubblicani ha fatto pensare non solo i commentatori, ma anche i superdonatori come Jamie Dimon, amministratore delegato della banca JpMorganChase, che l’ex ambasciatrice alle Nazioni unite fosse la persona giusta per superare lo stato gerontocratico della politica americana.

Dopo il Super Tuesday, che ha chiamato alle urne gli elettori di quindici stati americani compresi California e Texas, possiamo dire che il suo messaggio non ha fatto presa tra i repubblicani per tutta una serie di ragioni.

Le ragioni di una sconfitta

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Per cominciare, non è vero che il culto di Trump all’interno del segmento militante del partito repubblicano è invincibile.  Senz’altro è maggioritario, ma ci sono diversi casi dove i suoi avversari sono comunque riusciti a battere candidati da lui sostenuti, come in Georgia, dove il governatore Brian Kemp e il segretario di Stato Brad Raffensperger sono riusciti a sconfiggere gli avversari sostenuti dal tycoon senza particolari problemi.

In questo caso il problema di Haley è stato quello di inseguire un miraggio: quello di un partito repubblicano liberal-conservatore di matrice reaganiana che attendeva solo di essere resuscitato. Una formazione politica pro-life ma internazionalista in politica estera, che sostiene gli amici dell’America nel mondo, senza badare a spese.

Una proposta che oggi però non risuona più nell’elettorato conservatore ed è un processo molto lento, iniziato negli ultimi anni di presidenza di George W. Bush, quando i simpatizzanti repubblicani cominciarono a essere delusi dai risultati della guerra in Iraq e cominciarono a chiedere serie restrizioni all’immigrazione, illegale ma non solo.

Alcuni storici come Niall Ferguson hanno collegato questo nuovo tipo di repubblicanismo a un altro tipo di conservatorismo, quello espresso dal governatore segregazionista dell’Alabama George Wallace durante la campagna elettorale per le presidenziali del 1968: il cosiddetto “conservatorismo della rabbia”, che cresce per le ansie della classe media bianca, timorosa di perdere quanto acquisito per via delle profonde trasformazioni sociali di quegli anni e per la crescente integrazione razziale.

Anche Wallace mostrava una certa attenzione alle istanze degli operai delle fabbriche della Rust Belt, che iniziavano a temere per i loro posti di lavoro. Se all’epoca Wallace si era affermato solo negli stati del Profondo Sud, con l’ascesa di Donald Trump questo originale mix politico conquista la ribalta nazionale.

La forza di Trump

A ben vedere però le idee degli avversari di Trump nel 2016 non troviamo però molta differenza: ad esempio, anche il senatore del Texas Ted Cruz proponeva draconiane restrizioni ai migranti così come misure restrittive nei confronti della comunità musulmana. Le qualità che Cruz pretendeva di avere riguardavano l’esperienza politica e lo standing presidenziale.

Caratteristiche queste che ora importano ben poco ai militanti, che vogliono un campione che soddisfi le loro istanze politiche in modo netto e possibilmente senza compromessi con l’odiata controparte democratica. Finora Trump è imbattuto in questo campo, dato che sa anche fare dei compromessi dove è utile politicamente, come sul tema dell’aborto, dove Donald Trump è restio a implementare un divieto su scala nazionale, mentre Haley sembra disposta ad incamminarsi su questa strada accidentata.

Anche su altri temi bioetici l’ex presidente si è dimostrato più elastico: quando la Corte Suprema dell’Alabama ha emesso una sentenza che riteneva gli embrioni congelati quali esseri umani a tutti gli effetti, si è affrettato a scrivere sui suoi account social un lungo messaggio che si può sintetizzare con «dovrebbe essere più facile avere bambini, non più difficile». Haley, invece, si era subita detta d’accordo con la discussa sentenza.

L’unico successo

Oltre a questo, l’ex governatrice della South Carolina non ha saputo nemmeno sfruttare con successo la sua provenienza in occasione delle primarie nel Palmetto State lo scorso 23 febbraio. Molti suoi sostenitori della prima ora, che avevano appoggiato la sua ascesa quando si proponeva come una combattente anti-tasse e una strenua sostenitrice del diritto di possedere armi private, si erano detti delusi dal suo continuo cercare sostenitori moderati e dal suo essere dipendente dai mega finanziatori come il già citato Jamie Dimon ma soprattutto il magnate della chimica Charles Koch, noto per essere un forte critico del trumpismo dopo essere stato in passato il principale promotore del movimento del Tea Party all’interno delle fila repubblicane.

Per questi elementi, dunque, l’unico magro risultato della campagna di Haley è la vittoria nelle primarie repubblicane della capitale Washington D.C., dove principalmente votano lavoratori del Congresso e lobbisti di K Street: perché il suo articolato messaggio reaganiano risuona benissimo con chi segue quotidianamente la politica.

Nel resto del paese, invece, si è dimostrato che il reaganismo ormai appartiene a un passato lontanissimo per i tempi della politica attuale. Come dimostra il caso di John Kasich, governatore dell’Ohio candidato alle primarie 2016, una posizione moderata oggi non paga nelle fila repubblicane: quattro anni più tardi Kasich ha sostenuto Joe Biden ed è uscito dal partito. Destino che oggi sembra attendere anche Haley.

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