Non è inconsueto nella politica americana che i leader del Congresso siano vecchi, malati e dall’apparenza un po’ senile. A fine anni ’90 si discuteva molto se il senatore repubblicano Strom Thurmond, che andava verso i cent’anni d’età, fosse lucido oppure si appoggiasse in gran parte al lavoro svolto dal suo staff.

Stessa domanda che oggi ci si pone sulla novantenne senatrice Dianne Feinstein della California ma anche su Mitch McConnell, che rispetto a Thurmond è molto più giovane (ottantuno anni compiuti a febbraio), ma da fine luglio a oggi ha avuto due misteriosi episodi di malessere.

McConnell, che è il leader repubblicano al Senato dal 2007, è rimasto paralizzato durante due diverse conferenze stampa, l’ultima un paio di giorni fa in Kentucky, lo stato dove risiede il senatore, che in seguito all’ultimo incidente ha dichiarato laconicamente che “vedrà un dottore”.

Per McConnell questo può essere l’evento che fa finire la sua leadership, fortemente criticata da Trump perché ritenuta troppo vicina alla Casa Bianca e a Joe Biden, mentre nel recente passato lo stesso senatore del Kentucky era visto dai democratici come l’oscuro manovratore che aveva consentito a Donald Trump di nominare tre giudici conservatori alla Corte Suprema usando tattiche politicamente discutibili. McConnell però non è il solo esponente politico di spicco che ha fatto coniare a qualche analista il termine “gerontocrazia americana”.

Anche i due principali candidati alle elezioni presidenziali del 2024 hanno un’età estremamente avanzata: Donald Trump, incontrastato dominatore del campo repubblicano, ha compiuto 77 anni a giugno e i suoi discorsi recenti di certo non brillano per coerenza argomentativa, mentre il suo avversario Joe Biden ne compirà 81 il prossimo novembre, stessa età di McConnell. Anche per il presidente ormai non si contano più gli episodi e le gaffe verbali che lo hanno visto protagonista.

Viene da sorridere se si pensa che nel 1980 il sessantanovenne Ronald Reagan veniva ritenuto troppo anziano per la presidenza degli Stati Uniti. Soltanto alla Camera dei Rappresentanti, con le dimissioni dell’ultraottuagenaria Nancy Pelosi lo scorso novembre, sostituita dal cinquantaduenne Hakeem Jeffries, c’è stato un po’ di rinnovamento, mentre al Senato anche i dem si affidano alle cure del leader settantatreenne Chuck Schumer.

Ci sono delle ragioni ben precise se la politica americana è ridotta in questo modo: da anni l’opinione pubblica, dopo l’innamoramento della figura di Barack Obama a cui è seguita una rapida disillusione, non vuole saperne di novità, preferendo affidare il proprio destino a figure politiche stagionate e ritenute più affidabili.

Così è successo anche per lo stesso Donald Trump, apparentemente il maggiore outsider della storia politica americana: già nel 2015 però aveva dalla sua una grandissima fama mediatica risalente addirittura ai tardi anni ’80. Queste scelte però hanno un costo: alla lunga fanno perdere entusiasmo e possono riportare all’astensionismo.

Come indicano i sondaggi, sia i repubblicani che i democratici preferirebbero votare un’alternativa a Biden e Trump. Anche se, a conti fatti, quando l’alternativa si materializza, ritornano sui loro passi, come nel caso di Ron DeSantis: fino a qualche mese fa il quarantaquattrenne governatore della Florida era visto come il futuro, ora invece appare come un politico freddo e impacciato, troppo attento a sondaggi e battaglie ideologiche contro le grandi corporation e le università cosiddette “woke”.

Forse è anche per quello che la vivace performance del candidato repubblicano Vivek Ramaswamy, ideologicamente molto vicino a Donald Trump, è risaltata così tanto. Non tanto per le idee che sono apparse come una copia di quelle Ultra-Maga, ma per la sua verve personale. Che certo può renderlo famoso nel mondo conservatore, che per certi aspetti è quasi spaventato dall’estremismo del trentottenne imprenditore tech di origine indiana, tanto da far dire allo stesso Trump che dovrebbe “evitare controversie”.

Quello che però ha mantenuto così a lungo questa gerontocrazia è il timore per ciò che verrà dopo: nel primo biennio di presidenza di Joe Biden la collaborazione con Mitch McConnell è stata fondamentale e lo è ancora per garantire all’Ucraina una costante fornitura di materiale bellico. Entrambi vengono dall’epoca della Guerra Fredda e ritengono naturale una collaborazione per il bene comune dell’America.

Un eventuale nuovo leader di stretta osservanza trumpiana invece curerebbe prima di tutto l’interesse di parte. Non una buona notizia per il funzionamento del sistema politico americano, da anni reso più fragile dalla costante polarizzazione tra due schieramenti politici che ormai faticano a trovare consensi comuni anche su argomenti minimi.

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