Le tracce di almeno uno degli attentatori di Mosca partono dalla Turchia, paese dalle estreme, incredibili ambiguità di politica internazionale su cui Ankara vive e cresce sebbene sia il principale bastione meridionale della Nato. Un paese densamente popolato dove transitano rifugiati e migranti di ogni tipo, dalla vicina Siria e dal Medio Oriente ma soprattutto dalle ex repubbliche Urss.

In un video tv russo visionato dalla Reuters uno dei sospettati dell’attentato di Mosca, un giovane con barba, ha detto di essere volato dalla Turchia il 4 marzo e di aver ricevuto istruzioni da sconosciuti tramite Telegram per compiere l’attentato in cambio di denaro. In un certo senso potrebbe non aver destato sospetti eccessivi, perché frequente trovare dei tagiki negli aeroporti del paese della Mezzaluna sul Bosforo.

Eppure nei giorni scorsi, riporta il sito di approfondimenti e notizie al Monitor, le autorità turche hanno arrestato 40 sospetti militanti dello Stato Islamico in otto province in raid coordinati, come annunciato domenica dal ministro degli Interni Ali Yerlikaya. Insomma una retata di rilievo per una organizzazione che si era detta sconfitta e annientata.

Il ministro Yerlikaya ha osservato che i funzionari della sicurezza turchi hanno effettuato 1.316 operazioni anti Isis tra il 1° giugno 2023 e il 23 marzo di quest’anno. Durante i controlli sono stati arrestati un totale di 2.733 presunti militanti. Circa 692 sono stati arrestati e 529 sono stati liberati ma restano a disposizione della magistratura. Le cifre imponenti danno il senso dello sforzo enorme a tutela dell’ordine pubblico ma anche della estrema permeabilità dei confini nonostante gli sforzi del Mit, il servizio di intelligence turco. La Turchia ha subito numerosi e sanguinosi attentati nel corso degli ultimi anni.

L’ombra dell’Isis-K

Dopo la repentina dipartita americana da Kabul, Sanaullah Ghafari, leader del ramo afghano dello Stato Islamico, avrebbe trasformato la rete locale in uno dei rami più temibili del network islamico globale, capace di operazioni lontano dalle sue basi ai confini dell’Afghanistan. Lo Stato Islamico ha rivendicato la sparatoria di venerdì nella sala da concerto vicino a Mosca che ha ucciso almeno 137 persone. Ma quello che interessa è che funzionari statunitensi hanno affermato di avere informazioni secondo le quali il responsabile è stato il ramo afghano, lo Stato Islamico Khorasan (Isis-K). Ma c’è di più.

Secondo un funzionario iracheno sentito dalla Reuters, due capi dell’Isis iracheno arrestati in Turchia a dicembre e consegnati a Baghdad hanno detto all’intelligence irachena che avrebbero contattato Ghafari per supporto finanziario e logistico scambiando messaggi attraverso due membri tagiki dell’Isis-K in Turchia. Insomma c’erano segnali inquietanti da mesi che qualcosa stava bollendo in pentola, come è stato poi reso noto dai servizi americani, ma senza essere preso in considerazione da Mosca.

La zona di sicurezza in Iraq

Il presidente Erdogan in questo stato di instabilità vorrebbe creare una “zona di sicurezza” nella zona di confine con l’Iraq dove si trovano le basi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), formazione armata ritenuta terrorista da Ankara e dalla Ue con cui l’esercito turco combatte da 40 anni contando 40mila morti. Erdogan nelle ultime settimane ha più volte parlato di un’operazione in estate contro il Pkk nel nord dell’Iraq sebbene Washington non approvi questo tipo di iniziative regionali in odore di politiche neo ottomane.

Elezioni a Istanbul e Ankara

In questo clima bellicoso domenica 31 marzo in Turchia, con una inflazione galoppante al 67,1 per cento, si terranno elezioni municipali, con il partito Akp del presidente Tayyip Erdogan che mira a riconquistare le città perse nel 2019, tra cui la metropoli del paese, Istanbul, e la capitale Ankara.

Il voto è visto come un indicatore della capacità di azione dell’opposizione, in particolare quella del sindaco Ekrem Imamoglu di Istanbul, la spina nel fianco di Erdogan. Si prevede un testa a testa nella città che conta 16 milioni di persone e genera più di un quarto del Pil totale. In gioco c’è molto. Nell’ultima votazione locale del 2019, il Partito repubblicano (Chp), principale forza dell’opposizione fondato da Kemal Ataturk, ha colpito Erdogan quando ha prevalso a Istanbul e Ankara e ha posto fine a oltre due decenni di governo dell’Akp e dei suoi predecessori islamici.

Erdogan, che ha governato la Turchia per più di due decenni, ha iniziato la sua carriera politica proprio come sindaco di Istanbul nel 1994 fino al 1998, dopo essere stato arrestato e poi liberato dai militari al potere per attentato alla laicità dello stato.

I sondaggi danno a Imamoglu un leggero vantaggio su Murat Kurum dell’Akp. Ma la partita è apertissima dopo che lo scorso maggio Erdogan è stato rieletto presidente e la sua alleanza ha ottenuto la maggioranza in parlamento, nonostante le forti polemiche seguite al terribile terremoto che ha devastato il paese.

Il controllo delle grandi città

Il controllo delle grandi città può dare ai partiti di opposizione voce sui finanziamenti, sugli investimenti e sulla creazione di posti di lavoro, aumentando la loro forza sulla scena nazionale. Imamoglu è considerato dagli analisti politici indipendenti come la principale alternativa a Erdogan che ha fatto di tutto per sconfiggerlo, compresa la tenuta del voto la scorsa volta per due volte consecutive dopo aver annullato la prima per dei cavilli.

Imamoglu, che è stato oggetto di una azione giudiziaria molto discussa per “oltraggio” al presidente, se vincesse un secondo mandato probabilmente si candiderebbe come sfidante al prossimo voto presidenziale. Imamoglu ha vinto le elezioni del 2019 a Istanbul con il sostegno di un’intesa tra il Chp, il partito nazionalista Iyi e il partito filo-curdo, che ora si chiama Dem per problemi giudiziari.

Quest’anno però sia Iyi che Dem presentano i propri candidati. Ma, secondo i sondaggisti sentiti dalla Reuters, domenica molti curdi turchi metteranno da parte le indicazioni del partito e sosterranno Imamoglu, consci del peso della partita.

A Erdogan, riconquistare Istanbul e Ankara, invece darebbe forza al progetto di una nuova costituzione che potrebbe potenzialmente estendere il suo governo oltre il 2028, che oggi indica la fine del suo attuale mandato. Secondo la Costituzione in vigore, la presidenza è limitata a due mandati. Erdogan si è assicurato un terzo giro di giostra lo scorso anno grazie a una scappatoia giuridica derivante dalla transizione al sistema presidenziale nel 2018.

Insomma se il presidente turco Erdogan riconquistasse le città di Istanbul e Ankara, poi potrebbe seguire le orme di Putin modificando la Costituzione del paese della Mezzaluna nella parte in cui limita la permanenza al potere di un singolo soggetto.

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