Europa e Africa sono giunte ad una fase cruciale dei loro rapporti. Nel Sahel equilibri politici e guerra vanno in direzione opposte. Da un lato Parigi sospende le sue operazioni in Mali, dopo che per la seconda volta in pochi mesi l’esercito maliano ha fatto un colpo di stato senza nemmeno consultarsi alla vecchia maniera. Dall’altro gli jihadisti sferrano il più micidiale attacco dal 2015 in Burkina Faso, nel villaggio di Solhan a meno di 5 chilometri dalla frontiera maliana. Per ora si contano 140 morti ma saranno di più.

Sono mesi che a Bamako ma anche a N’Djamena o a Bangui, la gente disperata scende in piazza per reclamare sicurezza, giustizia, democrazia e lavoro. Per uscire dal caos a volte si invoca l’esercito contro i partiti, altre lo si esecra e si spera nella classe politica. Ma sempre e in ogni caso emerge forte un sentimento anti-francese.

Durante i raduni spesso si vedono sventolare bandiere russe: un chiaro segno di rigetto di Parigi.

Umiliati dall’Europa

Per l’Europa non si tratta di una buona notizia. Malgrado le critiche che si possono fare alla politica francese in Africa, l’attuale rifiuto coinvolge in filigrana tutti gli europei, se non tutti gli occidentali. Da una parte questo dipende dalla manipolazione dei gruppi radicali islamisti, che approfittano di tale risentimento per farsi largo e occupare spazi politici. Dall’altra però si tratta della la cartina di tornasole del fallimento delle politiche di aiuto allo sviluppo e soprattutto dell’aggressività di quelle migratorie messe in atto dall’Europa e anche dal nostro paese nell’ultimo decennio.

Ciò che fa infuriare molti giovani africani è l’indurimento complessivo dell’Europa nei loro confronti: ormai non è quasi più possibile ottenere un visto, non si può venire a studiare né a formarsi se non eccezionalmente, non si può venire a curarsi per non parlare dei visti di lavoro. Per i giovani africani l’unica Europa possibile è quella del deserto, dei barconi e alla fine del lavoro clandestino, schiavo e al nero.

Cresce il rancore di giovani che hanno studiato (più dei loro genitori) sui libri di scuola europei ma che vengono quotidianamente umiliati davanti alle ambasciate europee (mentre per andare a Pechino non ci vuole visto).

Sono ragazzi e ragazze a cui è negato il diritto di sperare in una situazione migliore e che sono costretti a sbrigarsela illegalmente e da soli. Il fatto di costringerli a tale solitudine o ad affidarsi a mani ostili come quelle dei moderni trafficanti di schiavi libici, fa aumentare l’astio nei nostri confronti.

Ma c’è di più: i giovani africani non sopportano che l’Europa sostenga regimi autoritari e corrotti continuando a foraggiarli. La Francia ha certamente le sue responsabilità in questo ma anche tutta l’Ue, visto che rappresenta il più grande donatore mondiale in Africa. Per i giovani africani non è più accettabile che tutti gli aiuti passino attraverso i loro governi: cioè che vengano sistematicamente dirottati ad altri fini. Inutili le sofisticazioni del politically correct come la ownership: finché i denari transiteranno per mani corrotte non ci sarà niente da fare.

Il contagio sovranista

Un’altra ragione dell’avversione dei giovani africani è il contagio sovranista proveniente dagli altri continenti. Anche in Africa i giovani si fanno attrarre dalla propaganda anti-global e identificano nell’Europa il più grande pericolo per la propria identità.

Molti giovani leader politici, creatori di movimenti anti-regime e populisti, auspicano una “seconda indipendenza” dei loro paesi, per essere davvero liberi. Non è un caso che in Senegal i manifestanti scesi in piazza il mese scorso contro l’arresto di un giovane leader dell’opposizione Ousmane Sonko, se la siano presa metodicamente con i negozi e i grandi magazzini francesi come Auchan, distruggendoli.

L’accusa è di rubare il lavoro ai piccoli rivenditori di strada e al commercio al minuto. Che differenza c’è con chi in Europa da anni accusa gli africani di rubare il lavoro ai giovani del posto? Così l’arma sovranista ci si rivolge contro e diviene un boomerang. 

Cancel culture all’africana

Sono tutte situazioni che spingono il presidente Emmanuel Macron a ritirare i suoi militari dal continente: anche se le intenzioni sono buone (proteggere il Mali dal jihadismo ad esempio) la disaffezione tra francesi e africani è così profonda che nessuno ci crede più. L’Italia è coinvolta in tale idiosincrasia perché ha suoi militari nell’area. Tutti gli europei sono responsabili e coinvolti perché non è mai stata preparata una politica europea comune a sostituzione di quella delle ex potenze coloniali. In un periodo di risorgenza identitaria, tutta la storia passata viene nuovamente vagliata dai giovani africani, riletta schiacciandola sul presente.

È una forma di cancel culture all’africana che porta a esecrare il passato come fosse tutto inquinato dalla mano del “bianco” che avrebbe tutte le colpe. 

La relazione Africa-Europa ne esce male: il periodo coloniale viene allungato (talvolta arbitrariamente) con l’aggiunta di quello post coloniale, considerandoli un tutt’uno. La pratica neo-coloniale viene accusata di aver proseguito il precedente sistema di dipendenza mediante accordi economici capestro favorevoli alle ex metropoli, o sistemi agricoli a mono-cultura, oppure finanza o moneta (come nel caso del franco Cfa) asservita allo straniero.

A complicare tutto questo contribuisce l’avversità delle ex nazioni colonizzatrici a considerare le proprie responsabilità. Infine c’è il grande tabù antico della memoria della tratta degli schiavi, mai davvero sanato e che da al tutto un sapore inconfessabile di razzismo.

Ancor prima che trionfasse la cultura dell’identitario in cui siamo immersi, il fallimento della conferenza di Durban contro il razzismo del 2001 a causa della questione delle riparazioni, aveva fatto capire che tra Africa e occidente si stava creando un fossato simbolico e sentimentale.

La colpa è anche degli europei che progressivamente si sono fatti prendere dalla paura del declino reagendo con atteggiamenti arroganti come quando Nicolas Sarkozy volle iscrivere in una legge il “ruolo positivo della colonizzazione”.

In Francia si scatenò un dibattito nazionale sul tema che ebbe conseguenze all’estero. Se il vittimismo europeo giunge fino a ribaltare le accuse e cercando di giustificare il fatto di aver asservito popoli e regioni, non c’è da stupirsi che gli africani attribuiscano ogni vicenda negativa dei propri paesi al colonialismo. Ovviamente in tale tipo di esercizi si incorre in parecchi infortuni che vanno dall’appiattire la storia sul presentismo, al creare miti finti e altrettante vere barriere psicologiche, a favorire la patologia della memoria fino a voler rimodellare il passato cancellandone interi pezzi. 

Ricomporre la frattura

Tutto gira attorno all’idea del revanscismo (da entrambi i lati) o della riparazione, trasformando la memoria storica in un’arma a doppio taglio. Ci sono certe parti della storia comune tra Africa e Europa che vanno certamente purificate ma l’obiettivo comune deve essere quello di un nuovo patto del convivere.

L’Europa ha la responsabilità del primo passo. Altrimenti la frattura si allargherà a dismisura e arriveranno altri a colmarla. Si parla tanto ora dei russi ma la storia della loro presenza in Africa non è nuova.

Negli anni Sessanta delle indipendenze sostennero molti paesi afro-marxisti; negli anni Settanta inviarono molte armi a supporto dei loro alleati; negli anni Ottanta usarono le truppe cubane e di altri paesi dell’ex blocco dell’est. Poi ci fu un forte riflusso e sparirono per 30 anni.

Ora stanno tornando in forze approfittando dei vuoti lasciati dagli occidentali. Così ha fatto anche Pechino, ormai una realtà consolidata sul continente, non solo dal punto di vista economico. A completare il quadro ci sono tanti altri: turchi, coreani, indiani e brasiliani (anche se ora un po’ in stasi) e ora soprattutto i paesi del Golfo. Tutti cercano un rapporto con un’Africa giovane e in ebollizione. Un nuovo relazione tra Africa ed Europa conviene soprattutto a quest’ultima.

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