«Credibile, amabile, rispettabile». Queste le parole che il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping ha scelto il 3 giugno per descrivere di fronte ai funzionari del Partito comunista cinese l’immagine che la Cina deve dare al mondo, secondo la cronaca della agenzia di stampa di stato Xinhua. «È necessario fare amicizia, unire e conquistare la maggioranza, ed espandere costantemente la cerchia degli amici [quando si tratta] dell'opinione pubblica internazionale», ha raccomandato il presidente in un discorso che secondo gli analisti segna una svolta rispetto a un allure diplomatica divenuta progressivamente più aggressiva.

Nello stesso giorno il presidente Xi ha inviato una lettera per l’anniversario della nascita del quotidiano di partito in lingua inglese China daily in cui ribadiva la necessità di rafforzare il marchio cinese a livello internazionale.

Una sfida diplomatica

La Cina sta cercando di restaurare la sua immagine sul palcoscenico globale. I rapporti con gli Stati Uniti e con gli stati nella loro sfera di influenza sono concretamente peggiorati con la nuova amministrazione democratica di Joe Biden, che non offre alla Repubblica popolare la facile opportunità di fare da contraltare a un nemico del multilateralismo dichiarato come Donald Trump.

Al contrario la nuova amministrazione democratica da mesi sta dispiegando una offensiva diplomatica di riallineamento alla Unione europea in funzione meramente anti cinese, ricucendo una frattura vantaggiosa per Pechino.

Resta, però, alla Repubblica popolare cinese, il ruolo apertamente rivendicato anche nell’ultimo discorso di apertura del World economic forum di Davos di rappresentante dei paesi non occidentali, di quel che resta dei Brics e della sterminata prateria dei paesi che ambiscono allo sviluppo, e in particolare del continente africano, dove gli investimenti diretti della Repubblica popolare cinese, la sua influenza, il suo soft power hanno da tempo sbaragliato i concorrenti.

Afrobarometro

Eppure, proprio da quel continente, così poco raccontato, appiattito nelle formule di una terra destinata alla conquista di potenze altre, arrivano segnali importanti per la classe dirigente di Pechino, e non solo di Pechino.

Francesco Iacoella, Bruno Martorano, Laura Metzger e Marco Sanfilippo hanno firmato uno studio pubblicato sulla European Economic Review che spiega come in seguito alla realizzazione di progetti di cooperazione allo sviluppo cinesi ci sia un aumento delle proteste delle società civili africane.

«Analizzando tutte le informazioni disponibili su eventi di protesta e di partecipazione politica, grazie a database che raccolgono articoli di stampa e banche dati open source sulle manifestazioni organizzate e incrociandoli con la geolocalizzazione dei progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina, abbiamo dimostrato che nelle aree interessate dai progetti il tasso di protesta aumenta e si registra anche un calo di fiducia nel governo locale», dice Marco Sanfilippo, docente di economia internazionale all’università di Torino e studioso specializzato nello sviluppo dei rapporti commerciali dell’africa sub sahariana e quindi, di pari passo, del ruolo svolto dalla Cina.

Dal treno alle reti Huwaei

Prima di questa ricerca, gli studi di Sanfilippo si erano concentrati sulle relazioni economiche tra la Cina e l'Africa e su casi specifici come quello dell’Etiopia, dove i cinesi hanno recentemente ricostruito la ferrovia che collega la capitale Addis Abeba al porto di Gibuti, oggi sede della più grande base militare cinese fuori dai confini della Repubblica popolare. «D'altronde, il primissimo progetto di rilievo nella cooperazione internazionale nell'epoca di Mao fu proprio una linea ferroviaria, la Tanzania-Zambia Railway», dice Sanfilippo.

Quel progetto degli anni Settanta fu realizzato dalle ferrovie cinesi e dal colosso delle costruzioni China civil engineering construction corporation, e finanziato da tre banche di sviluppo della Repubblica popolare.

Oggi Xi, il leader cinese a Mao più paragonato, non solo per quella concentrazione di poteri che ne fa uno e trino, presidente, segretario di partito e capo militare, ma anche e soprattutto per standing a livello globale, sta compiendo la transizione dalle infrastrutture fisiche a quelle digitali, con aziende cinesi come Huawei divenute fornitrici circa il 70 per cento della rete 4G del continente.

Nel passaggio dalla ferrovie alle frequenze, gli investimenti cinesi in Africa si sono intensificati, moltiplicati, gonfiati. In appena sedici anni, dal 2003 al 2019 secondo quanto riportato dalla China-Africa research initiative della john Hopkins University i i flussi finanziari degli investimenti diretti esteri verso il continente africano sono lievitati da 75 milioni di dollari a 2,7 miliardi. Oggi la Cina ha superato nettamente gli Stati Uniti per gli scambi commerciali con i paesi africani e dal 2013 – 2014 c’è stato anche il sorpasso conclamato sul fronte degli investimenti.

«Una ascesa vertiginosa», dice il professore. Una ascesa che ha portato con sé crescita economica ma non solo: prestiti investimenti e proteste, per parafrasare il celebre titolo del premio Pulitzer, Jared Diamond, Armi acciaio e malattie.

Gli effetti

Lo studio compara gli effetti di due tipologie di progetti, che però sono qualitativamente molto diversi. Da una parte quelli finanziati dalla Banca mondiale, finanziamenti di un organismo internazionale e multilaterale che devono rispondere necessariamente a una serie di criteri di trasparenza e dovrebbero limitarsi agli aiuti allo sviluppo. Dall’altra i prestiti della Repubblica popolare cinese, prestiti da governo a governo, molto meno trasparenti, prevalentemente di natura non concessionale, ma che nella gran parte dei casi si traducono in concessioni di grandi appalti per le aziende di stato cinesi.

Il contratto sociale

«L’aumento delle proteste che abbiamo registrato con la nostra ricerca», spiega Sanfilippo, «non è dovuto ai progetti in sé, ma a una forma di ribellione verso lo stato per aver in qualche modo violato il contratto sociale con i propri cittadini».

In generale nelle aree interessate dagli investimenti cinesi gli indicatori socio economici migliorano. Aumentano, infatti, i beni che possiedono le famiglie, ma anche il livello di educazione medio della comunità che vive lì vicino e, in parte anche se in misura minore, migliorano le condizioni di salute.

Una ulteriore conferma viene anche dai dati che vengono spesso utilizzati per misurare la crescita nei paesi in via di sviluppo cioè la diffusione e l’intensità dell’illuminazione notturna: nelle aree interessate dagli investimenti l’intensità della luce aumenta e questo significa che è cresciuto il livello di industrializzazione o di servizi alle famiglie.

Ma se aumentano gli indicatori socio economici e insieme a loro anche le proteste, i dati dell’Afrobarometro, utilizzati nel lavoro del gruppo di ricerca e anche in altri studi recenti, rivelano che contemporaneamente in quelle aeree calano sia il tasso di sindacalizzazione e quello della fiducia nel governo locale.

Secondo l’esperto entrambi questi due fenomeni possono spiegare l’aumento delle proteste: se infatti i lavoratori non si organizzano sui luoghi di lavoro per rivendicare le loro istanza, il canale della protesta può diventare un modo per raggiungere lo stesso obiettivo.

L’analisi dei contratti

Il calo della fiducia, poi, può essere spiegato anche dalla natura dei contratti stipulati.

Un monumentale rapporto pubblicato questa primavera, firmato da cinque autori, ma che è frutto del lavoro di 100 ricercatori, analizza per la prima volta in maniera sistematica i termini legali dei prestiti cinesi, grazie alla raccolta di dati coordinata da AidData, su 100 contratti di 24 creditori della Cina, per un importo totale di 36,6 miliardi di dollari. Quasi il 50 per cento dei contratti riguarda, neanche a dirlo, paesi africani.

Quello che emerge dalla ricerca è che «i contratti cinesi contengono clausole di riservatezza insolite che impediscono ai mutuatari di rivelare i termini o persino l'esistenza del debito». Inoltre, «i finanziatori cinesi cercano un vantaggio sugli altri creditori», di fatto creando una corsia preferenziale in modo che il paese rimborsi i prestiti prima ai creditori cinesi invece di ottenere una ristrutturazione a livello multilaterale, come avviene per i paesi membri del club di Parigi, tanto da inserire clausole «no Paris club». L’insieme di clausole inserite nei contratti «consentono potenzialmente ai finanziatori di influenzare le politiche interne ed estere dei debitori».

La analisi di questi contratti contraddice profondamente tutta la narrazione della Repubblica popolare sulla cooperazione tra paesi del sud del mondo e anche, aggiunge il professore Sanfilippo, la teoria della «non interferenza» dichiarata dai dirigenti cinesi, cioè che la Cina non ha interessi a influenzare la politica interna dei paesi a cui presta aiuto.

Secondo il rapporto altri grossi creditori a livello internazionale, come la Arab bank for economic development in Africa, l'Islamic development bank, l'Opec fund for international development e il Kuwait fund for arab economic development, hanno clausole di confindenzialità ben più ristrette.

L’unico altro ente che in almeno due contratti mostra termini di riservatezza simili a quelli della China Eximbank è la Agence français de développement, l’agenzia francese per lo sviluppo.

I contratti cinesi mostrano «collegamenti tra contratti finanziari, commerciali e di costruzione pervasivi» e si legge ancora nelle conclusioni del rapporto, «concedono ai finanziatori una notevole discrezionalità per annullare i prestiti e/o richiedere il rimborso completo prima del previsto». Questo significa, tra le altre cose, che i prestiti limitano lo spazio politico del paese debitore per annullare un prestito cinese e persino per emettere nuove normative ambientali.

I rapporti politici

Diverse ricerche recenti ci stanno aiutando a capire le modalità con cui la Cina sta offrendo credito all’Africa e con quali effetti. Meno di due anni fa, un gruppo di studiosi di economia e dinamiche di sviluppo di università ed enti di ricerca tedeschi, svizzeri, americani e australiani, con primo autore Axel Dreher dell’università di Heidelberg, hanno concluso una ricerca particolarmente interessante. Hanno confrontato le ragioni di nascita di 117 leader africani, dalla Tunisia al Togo, dalla Namibia al Sudafrica, con la geolocalizzazione di 1650 progetti di sviluppo finanziati dalla Repubblica popolare tra il 2000 e il 2012.

Hanno scoperto che le regioni di origine dei leader politici hanno ricevuto dalla Cina «flussi finanziari sostanzialmente più ampi negli anni in cui questi leader erano al potere» rispetto a quando non lo erano, superando anche gli investimenti diretti in aree ricche di risorse minerarie.

I ricercatori hanno trovato l’evidenza che «gli aiuti cinesi beneficiano in maniera disproporzionata regioni “politicamente privilegiate” negli anni in cui i politici in carica affrontano le elezioni e quando la competizione elettorale è alta».

Le ricerche di Sanfilippo e dei suoi colleghi dicono che la disuguaglianza tra le aree investite dai flussi finanziari cinesi e quelle che ne sono escluse possono essere uno dei motori delle proteste, così come la scelta da parte dei governi di dove investire gli ingenti aiuti che arrivano dalla Repubblica popolare. Il paradosso, spiega, è che la crescita delle proteste viaggia proprio attraverso le infrastrutture tecnologiche fornite dalle aziende cinesi. Prestiti, investimenti, proteste e telefonini, allora. Ma anche di più: prestiti, investimenti, proteste, telefonini e sorveglianza.

Soft power e sorveglianza

Non è solo hard power quello che passa dai prestiti ai paesi africani, ma un rapporto che si potrebbe definire culturale. «Quello che possiamo osservare è che i prestiti plasmano il governo a immagine e somiglianza del creditore», dice Sanfilippo.

In concreto significa che lo stato debitore e concessionario di appalti assorbe modelli di organizzazione del creditore, ad esempio la cultura del lavoro, ma a volte anche le tecniche di controllo. L’Uganda, per esempio, ha adottato il modello cinese di sorveglianza. Letteralmente: il governo ugandese ha installato 83 centri di monitoraggio, che si avvalgono delle tecnologie di Huawei, inclusi i sistemi di riconoscimento facciale e li usa per rintracciare gli oppositori e, ironia della sorte, chi protesta contro il governo.

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