Per almeno un decennio se non di più, le ambasciate russe in Africa sono rimaste quasi deserte: dietro gli alti muri di protezione non c’erano più i numerosi diplomatici e membri dei servizi di sicurezza indaffarati, con l’andirivieni tipico dell’èra sovietica. Negli anni Settanta l’Urss aveva fatto la sua estrema offensiva proprio in Africa, in Etiopia e Angola, a sostegno dei suoi alleati del Mpla di Agostinho Neto e del Derg di Menghistu Hailé Mariàm. Un fiume di armi si era riversato in particolare sul Corno, assieme a molti rubli.

Scarsa compatibilità

L’invasione dell’Afghanistan è stata l’ultima spinta dell’èra Breznev a cui è seguita una serie di umiliazioni e di ritiri fino al termine della guerra fredda. Con la nuova Russia l’Africa sembrava aver poco a che fare dal punto di vista politico o commerciale. Gli scali dell’Aeroflot erano stati soppressi e la gran parte del personale era tornato in patria. A Conakry, in Repubblica di Guinea, si era svuotato il “quartiere dei russi” anche se alcuni avevano deciso di restare prevedendo difficoltà a casa. Così avvenne anche per gli europei dei paesi dell’est, in tutti i paesi africani dove c’era una loro presenza.

Dopo una lunga stasi oggi quelle stesse ambasciate si risvegliano: l’attività ferve come e più di prima. I russi tornano in Africa e si interessano di tutto: occupano gli spazi vuoti lasciati da altri, in particolare dagli occidentali. Li troviamo in Libia dove hanno installato basi militari concesse dal maresciallo Haftar: per Mosca era strategico ottenere una presenza a pochi chilometri dalla Nato in Sicilia. Ora cercano di farsi dimenticare per rimanere indisturbati.

Poi c’è stato il tentativo – ancora in corso – di farsi attribuire da Khartoum una base navale a Port Sudan. Più recentemente hanno sostenuto militarmente la ribellione anti-Déby del Fronte per l’alternanza e la concordia (Fact). Progressivamente si stanno allargando nel continente puntando sulla grande arma a loro disposizione: la vendita di armi. Se non ha tante risorse finanziarie, la Russia di Vladimir Putin non manca certo di armi leggere e medie, più facili da esportare. Così è stato nel caso della Repubblica Centrafricana dove la Russia ha risposto all’appello del presidente eletto Faustin-Archange Touadera, fornendogli armi e personale per puntellare il suo fragile mandato e ricostruire l’esercito disarticolato da troppe ribellioni. In questo come in altri casi la Russia preferisce utilizzare i contractors della Wagner, una società di security guidata da un magnate vicino al presidente russo. È un modo per creare un diaframma di sicurezza tra le operazioni in loco e il Cremlino. I contractors sono già stati sperimentati in Siria e Ucraina con risultati soddisfacenti (salvo l’episodio della carneficina di Deir al Zhor del febbraio 2018, quando in centinaia morirono per i bombardamenti americani).

Ora i loro servigi vengono offerti ad altri regimi africani. Si tratta di un modo per riannodare i fili con la vecchia pratica delle operazioni coperte della guerra fredda, incluso il sostegno militare ai movimenti di liberazione dell’epoca.

Le primissime voci di mercenari russi sul terreno risalgono alla guerra del Darfur (2007-2008). Poi ci fu il caso dei russi della nave Myre Seadiver arrestati nel 2012 in Nigeria con l’accusa di contrabbando di armi. In questi casi non ci furono prove di collegamenti con il Cremlino anche se alcuni dei personaggi coinvolti si ritrovano in seguito nelle agenzie che operano attualmente sul continente, tra cui la Wagner.

Guerra non lineare

Il secondo passo è stata l’offerta “ibrida” di supporto fatta da Mosca ai suoi potenziali alleati: consiglieri russi ufficiali affiancati da contractor privati (in genere della Wagner). Così è stato in Sudan, Mozambico e soprattutto in Repubblica Centrafricana che si presume essere l’operazione più grossa. Si tratta dello schema di “guerra non lineare” secondo la dottrina dello stato maggiore delle forze armate russe in vigore dal 2012. L’espressione descrive la guerra moderna senza fronte, sia quella del terrorismo che quella operata dalla contro-guerriglia, con l’apporto della disinformazione e della propaganda, l’utilizzo sul terreno di forze non identificabili e infine la guerra elettronica. Trattare con regimi africani non democratici o fragili è un modo per espandere la propria influenza internazionale a costi contenuti, utilizzando lo schema “sicurezza in cambio di risorse o vantaggi economici” già sperimentato in Siria. Così la Wagner si fa pagare in natura con concessioni minerarie o di altro genere.

Nel 2017 e 2018 in Sudan lo sfruttamento di giacimenti auriferi è stato scambiato con un programma di training delle forze speciali sudanesi e la partecipazione alla repressione delle manifestazioni, almeno fino a quando le autorità hanno dovuto riconoscere la presenza di russi a Khartoum, senza tuttavia che Mosca ammetta alcun legame ufficiale. La vittoria del movimento contestativo e la cacciata di Omar al Bashir hanno fatto chiudere per ora tale programma. In Mozambico il tentativo di utilizzare la Wagner contro l’insurrezione jihadista di Cabo Delgado è invece rapidamente fallito con perdite pesanti. Si parla ora di un certo interesse russo per l’area di instabilità del Sahel, se le operazioni attuali portate avanti sotto la guida della Francia (operazione Barkhane, Takouba e così via) dovessero rivelarsi inefficaci. Non è un caso che, durante il primo vertice russo-africano di Sochi dell’ottobre 2019, Putin abbia sottolineato con enfasi la necessità di rafforzare la cooperazione afro-russa contro il terrorismo.

L’uomo di Mosca

L’uomo alla testa di tali vicende è sempre lo stesso: Evgenij Prigozin, imprenditore e uomo d’affari di San Pietroburgo, amico di Putin. Si ipotizza che Prigozin sia dietro la creazione e la gestione della Wagner così come di molte imprese minerarie che sfruttano i giacimenti in Africa. Le campagne filo-russe sui social del continente sarebbero finanziate da lui. Gestisce anche altre imprese compresi ristoranti di lusso in patria. Adolescente turbolento con frequenti passaggi in carcere, Prigozin è uno degli ultimi arrivati tra gli oligarchi vicini al Cremlino. Divenuto gestore di ristoranti a San Pietroburgo negli anni Novanta, si fa conoscere da Putin, allora collaboratore del sindaco della città Sobchak. Si dice che nel 2001 servì personalmente a tavola Putin e Chirac nel suo ristorante di lusso galleggiante sulla Neva. Da quel momento decolla entrando in nuovi settori, come i media di propaganda, i social media (è stato accusato di finanziare una fabbrica di troll), o quello della sicurezza che lo ha portato in Africa. Il nome di Prigozin si legge su molte liste nere (tra cui quella della Ue) con accuse di violazione di embargo sulle armi. Tuttavia le sue attività restano fiorenti.

Malgrado ciò non bisogna credere – come spesso si legge – che le attività russe in Africa siano illegali o sotto copertura, tutt’altro. Ad esempio la loro installazione in Repubblica Centrafricana è avvenuta in maniera del tutto trasparente. All’inizio del 2017 la Francia era alla ricerca di armi da fornire alle forze armate centrafricane formate dall’Ue. Per risparmiare a Parigi si scelse di inviare a Bangui un lotto sequestrato nell’oceano Indiano che, secondo le regole internazionali, doveva essere distrutto. Di conseguenza in consiglio di Sicurezza Mosca mise il veto. I francesi lasciarono decantare la cosa fino a che i russi stessi non colsero l’occasione, fornendo armi nuove al Centrafrica (all’inizio si trattò di alcune migliaia di AK-47). Il consiglio approvò. Ad accompagnare le armi giunsero nel paese istruttori e consiglieri militari russi: il gioco era fatto e la strada per la Wagner aperta (a Bangui opera con il nome di Sewa Security). Oggi in Africa i russi vanno di moda: a Bangui il concorso per miss Centrafrica è stato sponsorizzato da un’impresa di Mosca.

Intanto accordi di partenariato militare sono stati firmati con Burkina Faso, Burundi, Guinea e Madagascar, mentre l’Egitto ha opzionato i Sukhoi 35.

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