Mentre Benjamin Netanyahu comunica all’inviato americano Amos Hochstein che Israele è deciso a operare, per via diplomatica o manu militari se la prima non fosse praticabile, un «cambiamento fondamentale» alla frontiera con il Libano che consenta agli abitanti della Galilea di tornare nelle proprie case e vivere in sicurezza – in altri termini, allontanare Hezbollah dal confine – e i caccia con la Stella di David e l’artiglieria di Tsahal colpiscono le località libanesi di Aïta el Chaab e Majdel Zoun e cannoneggiano il distretto di Marjeyoun, lo sceicco Nasrallah parla per la quarta volta dall’inizio delle ostilità.

Discorso che segue quello tenuto pochi giorni fa, in occasione della commemorazione di Qassem Soleimani, il generale dei Pasdaran eliminato quattro anni fa in Iraq dagli americani, che lo stesso Nasrallah ha ricordato come autentico stratega politico e militare dell’Asse della Resistenza. Un discorso pronunciato poche ore dopo lo “sfregio di Dahiyeh”, il quartiere santuario del Partito di Dio nel sud di Beirut violato da un drone israeliano per uccidere il numero due di Hamas Saleh el Arouri.

La guerra grande

Prendendo la parola, nella celebrazione per il vecchio compagno di strada e di lotta deceduto la settimana scorsa, Haj Mohamad Yaghi, uno dei fondatori di Hezbollah e della tv del movimento Al Manar, Nasrallah ha ribadito i capisaldi della linea del Partito di Dio di fronte alle nuvole di guerra su vasta scala che paiono addensarsi sul Libano. Da un lato ha promesso una risposta “inevitabile”, al momento e sul terreno più opportuno, all’attacco di Dahiyeh, significativamente definito «quello che è accaduto nella periferia sud di Beirut», stabilendo così un nesso inscindibile tra violazione del santuario di Hezbollah e vendetta contro il Nemico; dall’altro, ha introdotto un tema che fa comprendere come nei ranghi del Partito di Dio si ritenga la guerra grande come una prospettiva sempre più vicina. Non è un caso che Nasrallah abbia detto che quella in corso a Gaza è una guerra non solo per la Palestina, ma anche per il Libano, in particolare per il sud del paese. Il capo di Hezbollah, infatti, si dice convinto che, nel caso dovesse vincere a Gaza, Israele rivolgerà le sue forze verso la provincia del Litani. Affermazione sorretta dalla certezza che Israele sia deciso a applicare sino in fondo la dottrina della sicurezza post 7 ottobre, che si regge sul principio strategico “nessun nemico ai confini”: a Gaza come nel sud del Libano. Concezione che implica la cacciata di milizie ostili, come già avvenne nel 1978 con quelle palestinesi , oltre il fiume Litani.

Prospettiva che Hezbollah, di fatto l’autentica forza armata del Paese dei Cedri e perno del suo spartitorio sistema politico confessionale, non accetterà mai. A dispetto della sua matrice islamista, e pur essendo espressione della probabilmente maggioritaria demograficamente comunità sciita, il Partito di Dio si vuole realtà nazionale: non si lascerebbe respingere, senza combattere duramente, da territori che considera libanesi. Località, non a caso menzionate da Nasrallah, come le fattorie di Shebaa, le colline di Kfar Chouba, il villaggio di Ghajar, occupati dagli israeliani che ne hanno mantenuto il controllo anche dopo il ritiro del 2000. Zona da tempo oggetto di reciproche prove di forza, dal momento che la risoluzione Onu 1.701, mai applicata integralmente dalle parti dopo la guerra del 2006, prevedeva il ritiro di Tsahal – le cui forze hanno invece spesso varcato la Linea blu – e la sola presenza tra il Litani e il confine dell’esercito regolare libanese e della forza di interposizione dei caschi blu dell’Onu.

«Un solo sangue»

Hezbollah unica milizia a non venire disarmata dopo la pax siriana seguita alla guerra civile 1975-1990, ha sempre rifiutato quella risoluzione, in nome della necessità di liberare i territori contesi dall’occupazione israeliana. Difficile che, nonostante l’intento del debolissimo premier facente funzioni Naijb Mikati e l’impegno diplomatico della Francia, quella disapplicata risoluzione possa ora essere la base per un’intesa capace di raffreddare le tensioni al confine.

Mettendo l’accento sul rivendicato carattere islamonazionalista del suo movimento, Nasrallah ha ribadito che la guerra per il Sud del Libano è la guerra per il Libano: come mostra il fatto che suoi effettivi, provenienti da tutte le province del paese, combattono nell’area. Mobilitazione che mostra come quella libanese sia «una sola comunità», «un solo sangue». Sottolineatura mirata a enfatizzare il ruolo nazionale di una forza che rivendica l’essere custode della sovranità e dell’integrità territoriale del Paese dei Cedri.

Un discorso che prepara il Libano alla possibilità della guerra, che pure Hezbollah non vorrebbe estendere oltre l’attuale grado d’intensità. Anche per questo, tra necessità non confessata di mobilitare la comunità internazionale perché prema perché quella linea rossa non venga superata e il rifiuto di ogni negoziato con Israele finché la guerra a Gaza non sarà terminata, Nasrallah fa sapere che se lo scontro si estendesse oltre l’attuale teatro, avrebbe caratteri assai diversi da quello in corso, che ha visto Hezbollah colpire circa settecento obiettivi, in larga parte militari: se le sue forze hanno sparato contro bersagli civili, sottolinea il suo leader, è solo in risposta a analoghi attacchi da parte di Israele.

Sarebbe una guerra, minacciava qualche giorno fa il capo del Partito di Dio, tutt’altro che in forma, condotta «senza limiti, né regole». Parole che rimandano a un conflitto combattuto anche in modalità asimmetrica, scandito, come negli anni Ottanta, da attentati fuori regione e sequestri di ostaggi: sostenibile, anche se questo il leader di Hezbollah non lo dice, solo con l’aiuto dell’Iran.

© Riproduzione riservata