Il premier ungherese, Viktor Orbán, ha voluto per sé, di nuovo, i pieni poteri in nome dell’emergenza sanitaria. Ma poi per giorni, in nome della «economia da tutelare», ha fatto finta di non vedere quella stessa emergenza, i decessi record, il sistema sanitario al collasso, i medici in allarme. A dispetto di ogni evidenza, gli stadi sono rimasti aperti, la Groupama arena di Budapest ha ospitato la partita Ferencvaros-Juventus come se nulla fosse, le misure – e i toni – del governo sono rimasti leggeri. Questo weekend le colline della capitale si sono affollate per le scampagnate, mentre venerdì sera mezzo governo – il vicepremier e il ministro della Salute – è stato visto in un rifugio per cacciatori nel nord est del paese: i ministri avevano il calice alzato, erano lì a fare baldorie, cantare, bere, senza mascherine. Poi la corda si è spezzata: Orbán si è reso conto di non poter più tergiversare.

Le nuove misure

Alle sei di oggi, il mattiniero primo ministro ha fatto la sua telefonata di routine al comitato scientifico. E deve aver proprio concluso che la situazione fosse ormai insostenibile, perché poche ore dopo si è messo a portata di telecamera, ha assunto il suo tono più grave, e ha annunciato alla nazione un “semi lockdown”. Da domani sera a mezzanotte, e per almeno un mese, saranno in vigore nuove restrizioni: un coprifuoco generale dalle 20 alle 5, ristoranti chiusi, serrata di negozi e parrucchieri dalle 19, niente eventi né raduni, scuole in presenza solo per i più piccoli (asili e primarie), stop alle manifestazioni sportive se non all’aperto. «Era ora», ha commentato l’opposizione. L’Ungheria, come la Repubblica Ceca, aveva superato senza troppi traumi la prima ondata ma in questa seconda si ritrova già con il sistema sanitario sull’orlo del collasso. Il numero di morti, in rapporto al numero di abitanti, proietta Budapest nel triste podio dei primi tre paesi europei con più decessi da Covid-19. Già alla fine della scorsa settimana, con 5mila casi in più e soprattutto oltre cento morti al giorno, il vicepresidente dell’ordine dei medici Tamas Sved aveva allertato sul «collasso imminente» del sistema sanitario: «Ci costringerà a dover decidere chi salvare e chi lasciar morire».

Schizofrenia di governo

Il punto è che mentre la Repubblica Ceca, di fronte all’esasperarsi della situazione e alla sanità che non reggeva, già il 22 ottobre ha imposto (tra le prime in Europa) un lockdown, l’Ungheria fino alle nuove restrizioni introdotte oggi si è barcamenata con misure molto blande. «Il lockdown va assolutamente evitato», si ostinava a dire Orbán squadernando i danni economici che la crisi da Covid-19 ha portato. «Dopo un calo del Pil del 13,6 per cento nel secondo trimestre, il governo si aspetta una contrazione tra il 5 e il 7, quest'anno». Neppure l’arrivo dei contagi nella compagine di governo ha scalfito l’assioma dell’economia da tutelare: e dire che il ministro degli Esteri, Péter Szijjártó, trovato positivo a inizio mese, ha praticamente costretto alla quarantena mezzo governo cambogiano, visto che prima di sapersi malato ha incontrato – senza mascherina – il premier e altri esponenti. Il governo ungherese il 3 novembre si è limitato a introdurre un coprifuoco dalle 24 alle 5 e ha chiuso solo le discoteche. In una mossa attira-consensi, poi, Orbán ha concesso i parcheggi gratis (per disincentivare i mezzi pubblici, ma favorire di fatto l’uso dell’auto, già comune in un paese fatto di vaste aree rurali). L’unica vera mossa “dura”, il premier finora se l’era tenuta per sé: garantirsi un uso del potere il più svincolato possibile. Dalla mezzanotte del 3 novembre infatti è in vigore lo “stato di pericolo”, uno dei regimi speciali annoverati dalla Costituzione in caso di emergenze. Consente al governo di procedere per decreti d’urgenza, i cui provvedimenti rimangono effettivi per due settimane.

Pieni poteri

Proprio domani, lo “stato di pericolo” arriva in parlamento: «Vogliamo chiedere all’aula di estendere il regime per novanta giorni», ha detto il premier, intendendo che il voto serve per prolungare l’efficacia dei decreti da due settimane a tre mesi. Il nuovo regime evoca quanto già visto durante la prima ondata, con lo “stato di emergenza”: il 30 marzo l’assemblea budapestina ha consegnato al premier un assegno in bianco, consentendogli di governare a colpi di decreto, per un tempo indefinito. Orbán è specialista delle emergenze a tempo indefinito: nel 2015 dichiarò lo «stato di crisi per immigrazione di massa» ma lo ha protratto anche quando la media di ingressi illegali era prossima allo zero. Tra le prime mosse compiute nello “stato di emergenza” della prima ondata, ci sono stati un attacco alla comunità lgbt (con il disconoscimento di altri generi se non quello alla nascita) e la scelta di secretare i dettagli dell’accordo con la Cina per la nuova linea ferroviaria Belgrado-Budapest. Le rimostranze dell’Europa, comprese le schermaglie interne al partito popolare europeo di cui Orbán fa parte (per quanto da sospeso), all’epoca sono valse a ben poco. E tuttora, il premier si diverte a sbeffeggiare Bruxelles: minaccia di tenere in ostaggio il piano di ristoro europeo quando servirà il voto dei parlamenti nazionali, tantopiù che la presidenza tedesca e l’europarlamento si sono accordati per vincolare i fondi allo stato di diritto. E sul vaccino si dice pronto a procurarselo dalla Russia, nonostante l’Ue si riservi il beneficio del dubbio sulla validità delle sperimentazioni e dei risultati russi.

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