Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnnr), il programma che il governo deve presentare alla Commissione europea per ottenere i fondi del Next generation Eu, cioè il Recovery fund, è oggetto di un acceso dibattito per la decisione di creare una nuova struttura aliena ai ministeri e alla pubblica amministrazione che dovrebbe attuarlo e valutarne i progressi. È vero che a fronte dei tagli, la nostra pubblica amministrazione non ha né le competenze né le procedure necessarie a gestire efficacemente il Pnrr. Ma questa non è una buona ragione per creare una struttura tecnocratica parallela, rinunciando a migliorare la nostra pubblica amministrazione, snellendone le procedure burocratiche e rinvigorendola attraverso l’assunzione di giovani come proposto dal Forum disuguaglianze diversità anche su Domani.

Una scelta che arriva da lontano

La creazione della nuova tecnostruttura non è un’intemerata del governo, ma discende da scelte precedenti, ormai sedimentate, che hanno influenzato la stesura del Piano e il suo contenuto. Infatti, mentre le politiche economiche attuate dal governo per proteggere l’economia durante le fasi critiche dell’emergenza Covid-19 si sono rivelate efficaci, le strategie per rilanciare la crescita post pandemia sono apparse finora piuttosto velleitarie. Si è cominciato con il piano Colao che ha avanzato una serie di proposte al governo come una società di consulenza farebbe a una qualsiasi impresa. Il piano Colao è stato discusso durante i coreografici Stati generali organizzati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla fine di giugno, una manifestazione che però non è riuscita a produrre un piano per il rilancio della crescita italiana.

Nel frattempo, di fronte alla nuova politica economica europea che ha portato Next generation Eu (o Recovery fund), la risposta dell’Italia è stata poco reattiva, nonostante il nostro paese ne sia il maggiore beneficiario. Questa letargia è ancora più profonda se si considera che la Commissione ci ha fornito condizioni precise per la stesura del piano: le risorse ricevute devono essere vincolate a missioni come la digitalizzazione e la transizione ecologica. Tali missioni sono state scelte con una visione di politica dell’innovazione e industriale per trasformare l’economia europea rilanciando la crescita. Oltre a una visione organica, un piano imperniato su missioni richiede la fissazione di obiettivi specifici, una ricognizione degli attori da coinvolgere, i settori da considerare e le nuove tecnologie da sviluppare.

L’esempio del “green”

La transizione verde offre un ottimo esempio. Per realizzare una visione di crescita sostenibile, è necessario conseguire l’obiettivo di una riduzione del 55 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2030 per rispettare gli accordi europei. La decarbonizzazione dell’economia richiede l’aumento dell’elettrificazione, l’espansione delle energie rinnovabili, la riduzione delle emissioni delle industrie siderurgiche, del cemento e della plastica e dei trasporti.

Questi risultati si conseguono con l’innovazione, lo sviluppo e la diffusione di tecnologie chiave come fattorie eoliche in mare aperto, impianti solari, la filiera dell’idrogeno verde, batterie elettriche di nuova generazione e molte altre. Ciò richiede forti investimenti nella ricerca e la creazione di partnership tra il settore pubblico, le grandi imprese a partecipazione pubblica e le imprese private. Inoltre, ci vuole una visione di lungo periodo che ad esempio porti l’Italia ad unirsi alla partnership tra Francia e Germania per promuovere un’industria dell’idrogeno e delle batterie elettriche europee, da cui potrebbero nascere nuove “Airbus verdi”, una versione ecologica del primo produttore di aerei civili al mondo nato da un’alleanza pubblico-privata a cui partecipano diversi paesi europei; oppure alleanza che potrebbero servire a sviluppare la siderurgia ad idrogeno all’Ilva.

Purtroppo, il piano presentato dal governo non va in questa direzione e ciò dipende dalla cattiva gestione politica a partire dalla sua genesi. Il primo passo falso è stato chiedere a ogni ministero una lista di progetti. Ciò ha moltiplicato le proposte creando una lunghissima lista della spesa che ha obbligato il governo ad un’estenuante attività di potatura. I progetti sopravvissuti sono poi confluiti in sei macro-aree che non hanno le caratteristiche di missioni, nonostante quanto indicato nel Piano.

La struttura di sostegno a sei gambe non risolve infatti i difetti di progettazione che scontano la mancanza di una visione organica per rilanciare la crescita, l’assenza di obiettivi precisi e quantificabili (per esempio, taglio delle emissioni di gas serra, riduzione del digital divide) e la presenza di un gruppo di progetti che soffre di ridondanza e incoerenza (per esempio, qual è l’impatto sulle emissioni dei progetti non verdi?).

I problemi strutturali del piano sono esacerbati dall’allocazione dei fondi che si concentra per un terzo in bonus ed incentivi. Per esempio, è difficile comprendere come la digitalizzazione della nostra economia richieda ben 35,5 miliardi per le imprese (non è questo un chiaro esempio del famoso “sussidistan” di cui molti imprenditori si lamentano?) o come si possa considerare il propellente della transizione ecologica i 40,1 miliardi di euro destinati alla ristrutturazione degli edifici, mentre l’istruzione e ricerca e la sanità ricevono rispettivamente solo 19,1 e 9 miliardi. La mancanza di visione del piano spiega in parte perché l’Italia abbia rinunciato ad utilizzare una parte dei prestiti del Recovery fund, destinandoli a finanziare spesa già programmata.

Data la situazione, le prossime settimane saranno decisive per rinvigorire la vocazione di missione del Piano che allo stato attuale appare alquanto claudicante. Per raggiungere questo risultato, ci sarà bisogno di una migliore capacità di gestione politica più che di una nuova struttura tecnocratica.

 

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