Il treno interregionale che collega Torino e Milano ha numerose fermate intermedie, da cui ogni giorno partono e rientrano frotte di pendolari, studenti e, in orario serale, prostitute.

In queste stazioni, dove chi non è del posto si ferma solo per cambiare treno, o nella non remota ipotesi di qualche problema sulla linea, da qualche anno sono comparsi dei cartelli che invitano il viaggiatore a visitare la cittadina in cui si trova.

«Ecco cosa puoi vedere se hai un’ora di tempo» e poi un breve elenco, che si allunga via via nei cartelli successivi, nell’ipotesi che le ore a disposizione siano due o tre. C’è la chiesa del santo, con il suo organo ottocentesco; il palazzo che affaccia sulla piazza, con un affresco in bella vista; a volte una piccola torre.

Sembra di sentirla, la voce dell’amministrazione comunale che ti implora di non ignorare quel puntino sulla mappa, di regalargli un po’ della tua attenzione, magari poi di pubblicare un post decantandone i tesori nascosti: anche noi siamo parte del paese più bello del mondo.

Turismo petrolio dell’Italia

VWPics via AP Images

La verità, a cui questi luoghi e molti altri sembrano non volersi arrendere, è che l’Italia è un paese bellissimo fatto, per la maggior parte, di posti brutti.

I posti in cui i turisti non hanno nessun motivo per andare, ma che ciò nonostante continuano a inseguire la chimera della turistizzazione.

Il turismo, del resto, non è il petrolio d’Italia?

Luoghi privi di una narrazione positiva, che non avranno mai spazio in una guida turistica o l’attenzione di qualche trasmissione televisiva dedicata. Ma che, nonostante questo, continuano a credere di essere belli, di poter interessare a qualcuno perché, come quasi dappertutto in Italia, c’è una bella chiesa, una statua commemorativa, un qualche bene storico architettonico. Se ti trovi nel paese più bello del mondo, d’altronde, che altro puoi fare se non aderire, con tutte le tue forze, a questa retorica?

Spacciarti per bello, anche se bello non sei, finendo a volte per risultare grottesco? Pensiamo che il senso di un luogo prenda forma anche negli occhi dei turisti che lo guardano: se non vali una visita, allora, forse non vali e basta.

Questa è “Bruttitalia”: l’insieme dei luoghi dove nessun turista si sognerebbe mai di mettere piede. Luoghi brutti per i canoni estetizza(n)ti della “Bellitalia”, ma ricchi di senso e identificazione per chi li abita. Luoghi in cui molte persone desiderano abitare, dove esse lavorano o vorrebbero farlo. Luoghi della memoria, delle radici e della prospettiva biografica per chi ci vive. Luoghi dove si desidera restare e magari fare dei figli.

Un’Italia trascurata, ai margini della narrazione dominante, esclusa dalle politiche territoriali e che quando si mette il vestito della domenica appare fuori posto, se non grottesca.

Il caso Morriston: la forza dell’ordinario

Eppure un’alternativa esiste, solo che per trovarla, data la forza omogenizzante della narrazione pubblica sulla “Bellitalia”, dobbiamo andare fino in Galles.

Ce la mostrano alcuni ricercatori e ricercatrici del Collettivo per l’economia fondamentale che, in Galles, hanno condotto un’indagine sulla qualità della vita nelle cittadine anonime, quelle dove capiti solo se il navigatore si sbaglia.

Cittadine che, nel nostro paese, equivarrebbero a quelle che Arturo Lanzani ha definito «città medie senza particolari qualità», anche se non sono solo o necessariamente medie.

In Francia è da dove provengono i gilet gialli; luoghi né centrali né periferici, luoghi mediani di conurbazioni estese e città medio piccole, funzionalmente satelliti di poli che offrono lavoro e servizi. Spesso abitate da pendolari. E qualche importante qualità ce l’hanno, specie per chi ci vive.

Il caso studio degli studiosi gallesi è Morriston: 30mila abitanti, un passato industriale, un’economia presente stagnante e un futuro ancora da definire. Messa da parte l’illusione di poter sedurre chi viene da fuori, e dunque abbandonata l’idea di investire le scarse risorse a disposizione in servizi per fantomatici turisti, la palla è passata ai residenti, intervistati sulla loro quotidianità e su come questa potrebbe migliorare.

Non ci sorprende forse venire a sapere che gli abitanti di Morriston se ne infischiano dei limiti attrattivi della loro cittadina e si concentrano invece sull’assenza o sul malfunzionamento delle infrastrutture della vita quotidiana che hanno a disposizione: l’accesso alla casa, i presidi sanitari e socio assistenziali sul territorio, i servizi all’infanzia, le scuole, il sistema locale di trasporto pubblico e privato.

E poi, strettamente intrecciato a questi punti, quella che possiamo definire l’infrastruttura sociale che permette di vivere una vita che le persone ritengono valga la pena di essere vissuta: i parchi, le biblioteche, gli spazi pubblici di aggregazione.

Città, quelle come Morriston e dei suoi equivalenti nel nostro paese, che necessitano di infrastrutture a sostegno dell’esigibilità dei diritti di cittadinanza. Dove una donna può crescere un figlio e allo stesso tempo lavorare, mentre un anziano solo trova un luogo che lo accoglie dignitosamente per i suoi ultimi anni di vita.

Città dove l’ordinario è al centro dell’azione pubblica, che non si cura di rendere attrattiva la città per qualche sporadico turista, ma si impegna ad attrezzare la vita quotidiana delle persone con beni e servizi essenziali. Insomma, anche nelle cittadine ordinarie si può vivere bene, fregandosene dei turisti che mai arriveranno, a patto che si investa in servizi pensati per e con coloro che vi abitano.

La buona notizia è che, se è vero che alcuni interventi sono complessi e onerosi da mettere in atto e necessitano del coinvolgimento di attori istituzionali di diverso livello, molte azioni sono invece alla portata delle amministrazioni locali, tanto da un punto di vista finanziario quanto politico.

Come ci ricordano gli abitanti di Morriston, il benessere di una comunità passa anche dalla cura del verde pubblico, dalla manutenzione dei parchi giochi, dalla creazione di un campo da basket dove gli adolescenti possono incontrarsi, da un piccolo centro storico popolato di attività commerciali che continuano a esistere nonostante la proliferazione dei centri commerciali in periferia. Ma anche dalla costruzione di case del quartiere, fondazioni di comunità, biblioteche, emeroteche e servizi pubblici capillari e decentrati.

Spazi ed edifici per le persone che danno corpo alla materialità della sfera pubblica, alla sua dimensione spaziale, troppo spesso dimenticati a favore dell’immaterialità dell’opinione pubblica. Chiedere di difendere, valorizzare e moltiplicare questi luoghi di socialità testimonia innanzitutto l’attaccamento degli individui per il luogo in cui vivono, per quanto anonimo questo sia; e ci aiutano a ricordare che il valore di un luogo non deve per forza essere definito dall’esterno, inseguendo la chimera della turistizzazione a tutti i costi.

Necessità, questa, che le città medie senza particolari qualità condividono con larga parte del territorio italiano: campagne spopolate, tristi fondovalle, distretti turistici invernali dove non nevica più, coste orfane del turismo di massa e delle seconde case, ormai semivuote e fatiscenti, prive di un ceto medio affluente capace di sostenerle.

Italia paese di borghi merce

Diversità territoriale e policentrismo, però, sono inghiottiti dalla semplicistica narrazione sulla “Bellitalia” che ha trasformato l’Italia da paese di poeti, santi e navigatori a paese dei borghi.

Da qualche anno, la riscoperta della diversità territoriale italiana viene veicolata nello spazio pubblico e mediatico dal concetto di borgo e dai suoi significati.

Inteso come abitato storico circondato da mura e caratterizzato da monumenti di rilievo e da una riconoscibile struttura urbanistica, si lega all’immaginario antiquario dei borghi toscani e umbri e degli agglomerati urbani di piccole dimensioni e nobili radici storiche del nord Italia e del nord Europa.

Assurto a paradigma dell’autenticità, si tratta in realtà di una rappresentazione del “borgo merce” impastata di “archeologizzazione” e “medievalizzazione”, associata alle rievocazioni storiche in costume, al pittoresco e al branding della località tipiche.

A questa musealizzazione patrimonialista si accompagna la calcificazione della comunità locale, rappresentata come insieme omogeneo e armonico del bel tempo che non c’è più, priva di conflitti e differenze sociali e culturali.

Narrazione che poteva avere una funzione qualche decennio fa, quando il borgo era una piccola parte di un racconto più ampio ed escludente.

Quando le iniziative di Uncem, Anci, dei borghi più belli d’Italia e dei borghi autentici, si univano, con spirito positivo e ottimistico, alle denominazioni comunali di Veronelli e ai presidi slow food.

Iniziative meritorie animate dalla volontà di rianimare una rete di relazioni, tra produttori e consumatori, come tra persone e filiere produttive. Era questa la fase di avvio di un processo di riscoperta e di ripensamento delle aree interne e montane dopo la lunga parabola della modernizzazione novecentesca che aveva marginalizzato e reso invisibili vallate e contadi.

Ora, però, non è più così, e la pervasività borgo centrica separa invece di unire, spezza il rapporto vitale tra l’insediamento e il suo intorno, persegue la polarizzazione contro il policentrismo, nega la storia in favore della fissità atemporale, annulla la geografia economica dei luoghi come se i borghi potessero esistere senza le relazioni con le aree produttive che li circondano.

Dimenticando che lì si continua ad abitare e sempre più spesso si costruiscono percorsi di rivitalizzazione e rigenerazione. Un borgo merce, appunto, che premia la globalizzazione del tipico: promesso a tutti, ma che deriva il suo valore solo se fruito dai pochi.

Un bene posizionale: cosa c’è di peggio di un borgo affollato dove si deve fare la coda per entrare nella bottega dell’artigianato artistico? Da questo punto di vista, il borgo è un bene che riflette anche la scomposizione di classe della borghesia e le sue traiettorie di cambiamento: un progetto post urbano per la borghesia metropolitana, un oggetto perduto per il ceto medio in crisi e un tratto della soggettività critica per il ceto medio riflessivo, mosso da preoccupazioni ambientaliste con tratti a volte tecnofobici.

Il borgo diventa così il comodo e informe contenitore dove riporre, deformandola, l’alterità dei luoghi, la loro diversità radicale. Come se i territori del margine non avessero un loro carattere autonomo e differenziato, non fossero da riabitare anzitutto fin dalla vita quotidiana delle persone.

La costruzione del paesaggio metropolitano segue la medesima falsariga: spettacolarizzazione ed estetizzazione della scena, forme fissate e iconografie che si contrappongono all’ordinarietà del vivere. Narrazione, questa, a cui corrispondono alcune linee di spesa del piano nazionale borghi, da cui scompaiono le reti fra comuni e gli abitanti a favore di interventi su comuni singoli.

Posti brutti, ma dal forte legame affettivo

L’Italia è un paese bellissimo pieno di posti brutti, sì, ma questi posti brutti sono ricchi di senso per chi vi abita.

“Bruttitalia” è una realtà anche nelle nostre aree interne in abbandono: luoghi che nessun turista vorrebbe mai visitare, spesso pieni di bar dai tavoli di formica che servono prodotti industriali privi di ogni legame con la tipicità tanto sbandierata.

Oltre ai borghi tipici, ci sono borghi abbandonati con abitazioni diroccate e vegetazione incolta, separati da marciapiedi divelti e lontani dai servizi essenziali.

I borghi tipici e belli oscurano i paesi, annichiliscono la rilevanza del contesto che permette al paese di vivere, plastificano la comunità locale in un presepe o in una rievocazione, immancabilmente medioevale, con asce, drappi, damigelle e bandiere.

Luoghi senza faglie, dove tutti vanno d’accordo. Mentre, come sappiamo, ogni luogo è attraversato da conflitti, diatribe, spinte conservatrici e che bloccano le innovazioni.

Eppure, anche dalle aree interne, belle o brutte che siano, le persone non se ne vogliono andare. Ce lo dice la ricerca realizzata dall’associazione Riabitare l’Italia, dal titolo Giovani dentro, un progetto di ricerca sulla vita e sulle prospettive dei giovani abitanti delle aree interne italiane (18-39 anni).

Il dato non scontato è che circa la metà dei rispondenti (52 per cento) vorrebbe restare nel luogo in cui vive e pianificare lì la propria vita, mentre solo il 12 per cento vorrebbe vivere e lavorare altrove e ha in programma di partire. Gli altri si dividono tra chi vorrebbe partire ma non può (21 per cento) e tra chi invece vorrebbe restare ma si vede costretto a partire (15 per cento). Tra le principali motivazioni a restare ci sono il forte legame con la comunità (65 per cento), la possibilità di contatti sociali più gratificanti (68 per cento) e la migliore qualità della vita (79 per cento). Per ciascuno di questi motivi il sud e le isole hanno percentuali più alte.

Esiste, quindi, una rilevante domanda di vita quotidiana nelle aree interne del paese, che chiede politiche pubbliche attente alle specificità dei luoghi. Politiche non solo orientate dalla narrazione dei borghi e alla valorizzazione del turismo, ma incentrate sul valore della vita quotidiana degli abitanti dei territori. Tanto di quelli con i paesaggi da cartolina, come di quelli dove nessun turista vorrebbe mai trascorrere più di qualche ora.

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