Non si parla d’altro che della necessaria ripresa del turismo: per lavoro, per vacanza, per perseguire la salute del corpo e dell’anima. Sindaci e capi di governo sono pronti a usare qualsiasi mezzo perché il turismo si riappropri di fette sempre più grandi del Pil.

Riappropriarsi è il termine adatto, e per due ragioni: la prima è che secondo le stime del World Travel & Tourism Council (Wttc)  la ricchezza prodotta dal settore turistico si è quasi dimezzata nel 2020, passando da 9,2 trilioni di dollari a 4,7, incidendo solo per il 5,5 per cento sul Pil globale. La seconda è che i sistemi con cui si calcola il “contributo” del turismo al Pil sono fondati su un gigantesco falso ideologico: il turismo, si dice, è un’industria che ha un indotto gigantesco, perché alimenta non solo trasporti e accoglienza, ma anche cultura, edilizia, servizi, produzione di merci e altro. È vero il contrario: il turismo non genera, non produce ricchezza per tutti questi altri settori, ma li monopolizza, li subordina a sé, estrae ricchezza dai loro ambiti e ne distorce le funzioni.

Il turismo si basa su rendite di posizione, gestite da privati, i cui guadagni ricadono pochissimo sui territori. 
Basta citare la vicenda delle concessioni balneari che per anni hanno generato profitti milionari a fronte di introiti inesistenti per lo Stato. O la gestione, esternalizzata da anni del patrimonio culturale, accostato in funzione ancillare al turismo: nel 2018 i servizi aggiuntivi dei musei in mano a pochi grandi gruppi privati hanno generato 62 milioni di euro, di cui solo sette sono andati allo Stato. Ancora: un terzo del valore aggiunto generato dal turismo è riconducibile all’utilizzo di case di proprietà per motivi turistici secondo la Banca d’Italia. Che, con la nascita di piattaforme digitali come Airbnb a partire dal 2008, è sfuggito a qualsiasi controllo. Così solo a Roma ci sono 13 milioni di presenze turistiche fantasma, il 30 per cento di quelle ufficiali; il che significa meno introiti e più costi collettivi per i servizi pubblici locali.

Lavoro di bassa qualità

E soprattutto, il calo dell’occupazione nella produzione e nella Pa, nella sanità e nella ricerca, è stato solo apparentemente compensato dall’aumento dei posti di lavoro nei servizi. Si tratta in gran parte di lavoro precario e a basso salario, che produce sul lungo periodo altissimi costi sociali ed economici e minore domanda interna.

Uno studio della Banca d’Italia mostra per esempio come l’iniziale espansione del valore aggiunto per abitante prodotta dal Giubileo del 2000 sia tornata a zero in dieci anni, con una ricomposizione dell’occupazione verso settori a bassa produttività. E molte ricerche attestano l’aumento delle diseguaglianze e della concentrazione della ricchezza a Milano dopo l’Expo, la dannosissima fuga degli abitanti dai centri storici e delle aree ad alta intensità turistica. Eppure oggi Airbnb stringe partnership con il comune di Milano o l’università di Venezia per promuovere eventi, residenze temporanee per studenti e city users, o co-progettare direttamente strategie di social washing. 

Più grande è la quota rappresentata dal turismo nel Pil di un paese, più lo rende fragile, esposto alla recessione ogni qual volta un evento infausto ne offusca la reputazione o restringe la mobilità.

Negli ultimi anni si è globalmente diffusa una nuova consapevolezza dei rischi della monocoltura turistica. La pandemia ha mostrato la fondatezza delle critiche. Il vuoto lasciato dall’arresto dei flussi ha avuto un impatto devastante proprio su quei paesi e quei luoghi - le città d’arte per esempio - in cui il turismo internazionale aveva prevalso su tutte le altre funzioni. Grecia, Cipro e Malta, il cui Pil dipendeva per oltre un quarto da questi flussi, hanno subito danni superiori al 75 per cento nel 2020 (in Grecia le entrate del settore sono calate da 13,9 a 4,3 miliardi di Euro, dati Bank of Greece), contro una media europea e anche italiana di circa il 50 per cento (dati Eurostat). In Italia nessuno ha sofferto quanto Firenze (perdite stimate di 1,5 miliardi), Milano (sei milioni di pernottamenti in meno nel 2020 rispetto ai dieci del 2019 per il blocco di fiere, eventi e mobilità lavorativa) o la costiera romagnola (-30% di presenze), mentre le regioni appenniniche e le coste meridionali hanno al contrario beneficiato del turismo di prossimità.

Quali alternative?

Il ruolo primario attribuito al turismo globale per la ripartenza del paese, anche all’interno del Pnrr, rischia di mettere in secondo piano due questioni: la necessità di trasformare radicalmente la gestione del turismo e di costruire alternative economiche per l’Italia oltre il turismo.

Quali alternative a politiche economiche così miopi? La risposta non si trova nella delocalizzazione dei flussi e rigenerazione dei borghi, puri stratagemmi retorici, ma nello spostamento dei finanziamenti dagli interventi straordinari alla pianificazione ordinaria, dall’attrattività alla produzione, dall’accoglienza all’abitare, dal privato al pubblico. E nella regolazione, nella limitazione e nel controllo delle piattaforme e dei grandi investitori. Non ha senso invocare chiusure e vessazioni per i turisti: quello di cui abbiamo bisogno è semplicemente rimuovere l’industria turistica dal centro della scena per tornare a costruire un’economia più solida, lungimirante ed equa.

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