La rivelazione l’ho avuta uscendo da uno spettacolo mesi fa: un amico aveva portato sua sorella, una donna di mezza età che non segue il teatro contemporaneo. Sulla scena avevamo assistito a violenze mimate bene, a metà fra recitazione e performance. «Ma voi siete malati!», è stato il commento di quella donna, che non aveva mai visto cose simili su un palcoscenico.

Sì. Siamo malati. Questo spiega tutto. I festival di teatro che seguiamo, finanziati dallo stato, sono prestazioni mediche erogate dal servizio sanitario nazionale. Per altri tipi di sofferenze esistono i presìdi psichiatrici, i centri di disintossicazione e di riabilitazione post-traumatica. Noi usufruiamo delle terapie festivaliere, perché soffriamo di un male non ben definito. Come chiamarlo? Dolore della scena? Scenalgìa? Teatrite? Schermosi? Sindrome spettatoriale? Crisi mimetica? Disturbo rappresentazionale?

C’è chi si voltola nei fanghi termali, chi si immerge in piscine sulfuree. Noi seguiamo le rassegne teatrali come la Biennale Teatro di Venezia (diretta per la terza volta da Stefano Ricci e Gianni Forte).

Quest’anno i primi giorni ero via, ho perso i pezzi forti iniziali. A cominciare da Naturae della gloriosa Compagnia della Fortezza, i detenuti di Volterra diretti da Armando Punzo: che shock sarà stato vedere 40 detenuti in scena? Che potenza avranno espresso i loro corpi sprigionati dalle cubature carcerarie?

Non ho visto Cuspidi di Valerio Leoni, che ha vinto il Progetto College Teatro riservato a registi sotto i 35 anni. La Biennale infatti in questi anni sceglie, accompagna e produce progetti di giovani registi e drammaturghi.

Ho mancato anche Het Land Nod (The Land of Nod) del collettivo FC Bergman di Anversa. Invidio chi è entrato nella ricostruzione di un’enorme sala museale con la riproduzione gigantesca di un dipinto di Rubens. Gianni Forte mi ha spiegato che sono dovuti andare a Marghera, in un capannone industriale dismesso, perché un soffitto alto quaranta metri a Venezia non si trova. Pare sia stato impressionante. Peccato, non c’ero e non posso fare altro che immaginarmelo.

Istruzioni per l’immaginazione

A pensarci bene, anche in una parte degli spettacoli che ho visto c’era molto da immaginare. Bisognava sedersi e seguire le istruzioni degli attori o delle voci fuori campo, che ti dicevano che cosa visualizzare mentalmente.

Per esempio, La Plaza, del duo svizzero-spagnolo El Conde De Torrefiel, ci dètta per mezz’ora il modo di contemplare il palcoscenico ricoperto di fiori davanti ai nostri occhi, come se non fossimo noi a guardarlo, ma un altro spettatore; poi in scena entrano attori-mimi mascherati, che fanno tutt’altro mentre il dettato di parole segue le vicende del fantomatico spettatore. Parole e azioni si divaricano anche quando sembrano coincidere: a un certo punto il racconto descrive il tuffo sbagliato di una ragazza che si sfracella su una scogliera e rimane stesa sulle rocce; contemporaneamente, la pantomima in scena mostra il corpo sdraiato di un’altra ragazza, ubriaca e svenuta, che viene violentata da un gruppetto di passanti.

Buona parte di ciò che si vede oggi, in questi festival per spettatori che soffrono di scenalgìa come me, è fondato sulla divaricazione tra parole e corpi, tra discorsi e immagini, tra significato delle frasi e visibilio scenico. Qualcuno ti racconta che cosa è successo altrove; oppure, invece di impersonare gesti e azioni, ti legge le didascalie del testo. È uno dei tanti aspetti del teatro postdrammatico (una specificità estetica descritta alla fine del Novecento dallo studioso tedesco Hans-Thies Lehmann), che ormai è diventato quasi manieristico.

Di fronte a certi spettacoli di nuovi autori italiani e di maestri stranieri ho provato una vertigine pensando che non sono altro che un’applicazione del resoconto del messaggero, “l’anghelikòs logos” delle tragedie greche. Il nunzio che racconta la morte di Antigone, o quello che descrive il suicidio di Giocasta e l’auto-accecamento di Edipo, si sono installati nel cuore del teatro d’avanguardia di oggi, dilagando e prendendosi tutto lo spazio e il tempo scenico. O, se preferite, a dilagare è il prologo dell’Enrico V di Shakespeare: «Se noi attori diciamo la parola “cavalli”, sta a voi spettatori immaginarvi cavalli veri, che stampano gli zoccoli sulla terra tenera».

Non so bene che diagnosi trarne, perché io faccio parte degli spettatori malati, non dei medici, ma credo che ciò descriva bene il nostro disturbo: non riusciamo più a tenere insieme fatti e discorsi, ad accoppiare ciò che accade e ciò che viene detto mentre le cose accadono. Immagini-gesti da una parte e parole-racconti dall’altra coabitano sulla scena, ma dandosi le spalle, o tuttalpiù accennandosi vicendevolmente con qualche mediazione: schermi, video, pantomime. Che cosa ci rivela, dell’epoca che viviamo, questa sconnessione? È un residuo di speranza che ciò che vediamo non sia tutto qui?

Ammazzare i fascisti

È così profondo, questo scollamento, che quando qualcuno prova a ricucire gesti e parole con una drammaturgia tradizionale i risultati sono sconcertanti.

Molti hanno apprezzato la qualità esteriore, puramente tematica di Catarina e a beleza de matar fascistas, del drammaturgo e regista portoghese Tiago Rodrigues. La trama: in un paesino del Portogallo di un futuro prossimo, ogni anno una famiglia fa una festa che culmina nell’uccisione di un fascista rapito per l’occasione. Può essere un politico, un attivista, uno spin-doctor che diffonde idee odiose e che quindi merita di essere giustiziato. La giovane Catarina per la prima volta nella sua vita dovrebbe eseguire questo omicidio rituale, ma si oppone. Nello scompiglio del momento, tutti i famigliari armati si uccidono fra di loro: l’unico superstite è il politico di destra! Chiude lo spettacolo con un lungo comizio, molto simile a quelli sovranisti e reazionari che si sentono risuonare oggi in Europa.

L’effetto sul pubblico è incisivo. Ma come non notare l’implausibilità quasi puerile di tutta la vicenda? Come credere che uno stato non si mobiliti per stanare quegli allegri sovversivi impuniti? Eppure in scena trillano spesso cellulari e smartphone, la cosa più facile da localizzare (non servono i servizi segreti, basta l’app Trova il mio iPhone). E la mattanza tarantiniana finale: perché? Un attore-narratore se la cava spiegando che «accadde tutto rapidamente». Insomma, si calpesta ogni verosimiglianza pur di imbastire le situazioni che l’autore-regista ha deciso di mettere in scena, senza guadagnarsele narrativamente, pur di consentire ai personaggi di fare i loro bei dialoghi sul dissidio fra etica e politica.

Qual è la morale estetica di tutto ciò? I malati più acuti di scenalgìa contemporanea (gli addetti ai lavori, gli organizzatori, i critici) hanno ormai messo sprezzantemente al bando “personaggi” e “storie” da questi festival terapeutici; se li ospitano è per motivi eccezionali (in questo caso, il contenuto ideologico della pièce di Rodrigues); ma apprezzandoli dimostrando di aver perso ogni nozione di quell’arte drammaturgica da cui si sono congedati. Questo spettacolo ha vinto il premio Ubu 2022.

Non compiangeteci 

In Veronica, l’ellittico testo di Giacomo Garaffoni, regia di Federica Rosellini (che ha dato vita a momenti visionari molto forti), le attrici-performer entrano ed escono dai loro personaggi, che sono astratti e disincarnati. Non cercano nessuna empatia. È stata una situazione ricorrente per il pubblico, in questa Biennale. Non si simpatizza con nessuno. Ci si sente esclusi, si prende atto di qualcosa di triste che riguarda gli attori-performer e chi li ha diretti. Presenze disagiate, afflitte da lutti e rammarichi, che li espongono senza pretendere di coinvolgere la tua compassione di spettatore.

Allo stesso modo ho faticato a dispiacermi per le sofferenze della donna protagonista di En Abyme, di Tolja Diokovič, regia di Fabiana Iacozzilli. Troppo pathos nei suoi monologhi, avulsi da una situazione concreta che aiutasse a immergersi nei motivi di quel dolore. Invece erano molto suggestive le parti non emotive del testo, in cui si descrivono gli abissi oceanici, la fossa delle Marianne, le esplorazioni del regista James Cameron, il pesce lumaca che riesce a vivere a settemila metri di profondità. La giunzione fra queste due metà, se ho capito bene, si fonda sul fatto che essere depressi è come vivere in fondo al mare.

Siamo una similitudine

Mi sembra una tendenza inventiva molto praticata oggi da drammaturghi e sceneggiatori: si prende una similitudine e si sviluppa la sua seconda parte. Esempio: gli adolescenti sono come un buco nero; ci puoi scrivere un intero film sopra, Everything Everywhere All at Once, in cui la figlia adolescente Joy è letteralmente un buco nero. È un procedimento che usa anche Zerocalcare: quando fa un esempio, un paragone, una metafora, ci si sofferma sopra, illustrandoli e sviluppandoli, con effetti comici.

Anche Carolina Balucani, in Addormentate, è andata in questa direzione, oggettivando drammaturgicamente una similitudine: essere giovani oggi è sentirsi come Belle Addormentate nel Bosco, ferite e paralizzate da un contatto fatale con qualcosa di inesorabile. Così l’autrice è riuscita a rivitalizzare situazioni esistenziali consuete, al limite del cliché, come la solita contrapposizione fra figli e genitori che gli fanno la predica.

La presenza scenalgica (la chiamerò così, dato che ormai su questo tipo di scene non ci sono più personaggi) non si riconosce in sé stessa ma nelle figure metaforiche che la rappresentano. Detto più semplicemente: «Io sono come XY: bene, allora concentriamoci su XY, non su di me».

Non sempre i risultati sono convincenti: bravissimo il performer e musicista Julia*n Meding in Hamlet, dell’autore e regista svizzero Boris Nikitin; meno coinvolgente il suo esitare amletico fra l’insoddisfazione di sé e la voglia di fare qualcosa di eclatante. Mi ha risucchiato molto di più Versuch über das Sterben (Indagine sul morire), in cui lo stesso Nikitin ci ha letto per un’oretta, seduto di fronte a noi, la storia della sua difficoltà a dichiararsi omosessuale, intrecciata alla morte di suo padre.  

Un altro sintomo della malattia scenica contemporanea è l’esibizione di un dolore personale, generazionale, nazionale. Non solo Nikitin, ma la performance Domani di Romeo Castellucci, il testo Cenere di Stefano Fortin, lo spettacolo senza parole Milk dei palestinesi Bashar Murkus e Kashabi Ensemble.  

Il dolore degli altri 

Alla fine, mi ha coinvolto di più chi ha ascoltato il dolore degli altri. Così lo svedese Mattias Andersson ha posto a 137 persone questa domanda: «Cosa faresti di diverso se potessi rivivere la tua vita?». In Vi som fick leva om våra liv (Noi che riviviamo le nostre vite) ha tessuto le diversissime risposte in una drammaturgia plurale, vivace, toccante.  

In questa Biennale c’era un capolavoro indimenticabile, capace da solo di curare ogni scenalgìa. Sto parlando di Anima, dell’artista visiva Noémie Goudal e della regista Maëlle Poésy, francesi. Un po’ videoarte, un po’ circoteatro, molto Antropocene. Su tre schermi giganti si avvicendano fotografie di foreste, palmizi: sono collage di poster cartacei, sono griglie geometriche di tronchi e rami, sono fondali teatrali che scorrono uno sopra l’altro. A volte prendono fuoco, e non sai se a bruciare sia la carta o una foglia vera, una finzione bidimensionale o un albero a tre dimensioni. Dall’alto cola un liquido che, con un effetto speciale semplice e prodigioso, fa scollare falde di carta, scortecciando le immagini: scopre paesaggi rocciosi, deserti, mentre sgocciola per terra, fisicamente, davanti ai nostri piedi.

Lo schermo centrale si apre a saracinesca: le immagini non ci proteggono più dalla desolazione reale; dietro c’è uno scheletro di tubi d’acciaio; un’acrobata in carne e ossa si arrampica: quella donna si regge disinvolta con le braccia, poggia i piedi sull’aria. Non c’è niente sotto di lei, sta sospesa sul precipizio che si spalancherà sotto di noi quando avremo esaurito ogni scena, ogni immagine, ogni palcoscenico, ogni schermo, quando avremo bruciato ogni paesaggio finto o reale e non potremo permetterci più il lusso di soffrire dolori superflui.

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