Cos’è, un esorcismo? L’industria leader del cinema, in trip da retroguardia rispetto allo streaming, cerca di accreditarsi come barricadera?

È quantomeno singolare che i modelli matematici in uso da qualche anno per i pronostici Oscar abbiano fatto centro per tutte e sette le statuette totalizzate dal film acchiappatutto di questa edizione 95, Everything Everywhere All at Once: miglior film, regia, attrice protagonista Michelle Yeoh, attrice non protagonista Jamie Lee Curtis, attore non protagonista Ke Huy Quan, sceneggiatura originale e montaggio.

L’algoritmo in sostanza – quello di Unanymous Al con la piattaforma Swarm – annusa il vento che tira meglio di qualsiasi sondaggio. Credevamo davvero che questa entità governasse solo la serialità tv? Cosa si sta comunicando al mondo, che non bisogna più fare film strepitosi come The Fabelmans di Steven Spielberg, o Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh, o Triangle of Sadness di Ruben Ostlund? Se questo è il segnale dell’Academy – intesa come collettivo di operatori del settore – per il grande cinema vedo un futuro da catacombe.

Il film dei Daniels, cioè Daniel Kwan e Daniel Scheinert (ditta strutturata ormai come i Coen, i Wachowski e via dicendo) ha molti pregi. È produttivamente indipendente e programmaticamente anarchico, fa spettacolo del multiverso come si pensa pretendano millennials, struttura l’immaginario attingendo a tutte le offerte di genere in bella mostra sugli scaffali, genere supermarket.

In più, parte dalla più incresciosa e banale delle grane: i proprietari di una lavanderia a gettone alle prese con un’odiosa funzionaria delle tasse. È vertiginosamente pulp, cavalca baldanzosamente lo spirito dei tempi, ma emotivamente è piatto. E dopo la sesta realtà parallela consecutiva sinceramente annaspi nella monotonia. Facile verificare in proprio: il film torna da oggi sui nostri schermi con I Wonder Pictures, per la terza volta da inizio anno, se non vado errata.

Netflix da Oscar

Netflix si porta a casa l’altro bottino significativo, con un remake che è esattamente agli antipodi: cinema classico, efficace ma teutonicamente tradizionale. Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger è probabilmente la migliore delle tre trasposizioni del romanzo antimilitarista di Erich Maria Remarque, ma le quattro statuette per miglior film internazionale, fotografia, scenografie e colonna sonora sono da fuori di senno. Diciamo che la divinità Netflix esige comunque i suoi sacrifici di sangue.

Ora, non siamo in zona Ben Hur, con i suoi 11 Oscar su 12 nomination, o di Titanic, 11 su 14, ma 7 statuette su 11 candidature portano i Daniels nel Gotha. Sarà vera gloria? Sarà il multiverso a riportare il grande pubblico in sala? Accetto scommesse.

E ricordo benissimo le standing ovation (più di una) quando Parasite, geniale outsider sudcoreano di Bong Joon-ho, nel 2020 rastrellò i premi veri: miglior film, regia, sceneggiatura originale nonché miglior film internazionale. Era l’onesto riconoscimento di una cinematografia “altra”, più fresca, più viva e più feroce. Con Everything Everywhere All at Once l’America torna a scommettere accortamente su se stessa, sulla propria capacità di restare al comando. 

Il resto è silenzio, nel senso di premi dovuti, annunciati e scontati. C’è il contentino per il femminismo in livrea, con la miglior sceneggiatura non originale a Women Talking di Sarah Polley, dal romanzo di Miriam Toews.

C’è la bocciatura delle due speranze italiane, il corto di Alice Rohrwacher Le pupille e le acconciature di Aldo Signoretti per Elvis. Resta nel cono d’ombra, premiata per la migliore canzone ( Naatu Naatu ) quella che a mio personale giudizio è la vera sorpresa degli ultimi tempi, RRR, il film indiano più costoso di sempre ma anche il più scatenato e vitale.

Inspiegabilmente l’India non l’ha candidato agli Oscar, ma è un’insalata mista di generi, dal musical all’epica alle arti marziali, che di tre ore non spreca un secondo.

Terrorizzata dagli strascichi della pandemia, l’industria del cinema Usa si butta sul protezionismo: meglio puntare sul nuovo di casa, gli Oscar di Parasite erano pre-Covid. In Italia comunque c’è chi ha l’occhio lungo. La I Wonder Pictures di Andrea Romeo è titolare non solo della distribuzione dei Daniels, anche di The Whale, che ha risarcito con una meritata statuetta il Brendan Fraser scomparso dai radar da oltre un decennio. Chapeau all’intuito, o meglio, con una parola italiana adottata da tutto il pianeta, Bravo!

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