Nel rosso di sera di sentimenti e intenzioni è facile sognare una storia del pensiero al femminile nella quale l’uomo cattivo e maschilista non abbia più potere. Un “se comandassero le donne non ci sarebbero più ingiustizie”. Un mondo in definitiva più giusto. Senza sorveglianze e punizioni.

Al di là delle narrazioni consolatorie la verità non sta proprio così. Lo fa presente Adriana Cavarero che al festival della filosofia di Modena, quest’anno dedicato al tema difficile, contraddittorio, “impossibile” per definizione della giustizia, ha presentato una lettura di Antigone di Sofocle.

Visione complessa

Cavarero è una femminista, ha dedicato una vita di lavoro filosofico al tema del femminile. Ha spiegato (in Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli) che la costante antropologica della narrazione ha un accento femminile: l’uomo pensa, la donna racconta. Ha raccontato (in A più voci, Feltrinelli) come la trama femminile dell’espressione vocale sia in grado di mettere in crisi l’ordito maschile della visione filosofico metafisica. In breve ha sostenuto e sostiene che la differenza ontologica è interpretabile come differenza di genere.

Ma il risultato non è l’utopia di un mondo più bello e più giusto in mano alle donne, piuttosto una visione problematica che non concede granché a semplificazioni e a consolazioni. Un pensiero complesso, senza lieto fine necessari.

L’Antigone è la tragedia più ambigua e spaesante di Sofocle. Da una parte Creonte, che in base alla legge della Polis non vuole che Polinice sia seppellito. Dall’altra parte Antigone, che fa seppellire il fratello, di notte, e viene condannata a morire rinchiusa sottoterra. Ius (legge) contro Dike (giustizia). Uno scontro che da duemila anni mette alla prova il pensiero politico e filosofico, sintomatiche e tendenziose le pagine di Hegel a riguardo.

«È una tragedia intorno a un corpo, che Creonte definisce “corpo nemico”», spiega Cavarero a Domani, «e che vuole insepolto affinché uccelli e cani lo sbranino. Questa centralità del corpo è molto importante, perché ciò a cui si appella Antigone sotto il firmamento della giustizia eterna è l’amore per un corpo, materico, sanguigno».

Genealogia di sangue

Ma che tipo di giustizia Antigone contrappone a quella del diritto, e della polis? «Antigone si appella a Dike, che è una divinità ctonia, sotterranea», spiega meglio Cavarero. «E mentre la legge della città è una legge fatta dagli uomini, fallibile, che può cambiare, che viene cambiata, la giustizia a cui si appella Antigone è eterna, oggettiva, i protomoderni direbbero “evidente ad ognuno”, indiscutibile, non fallibile. Dike già in Parmenide e in Platone è la giustizia che mantiene ogni cosa al suo posto. In Parmenide Dike è “colei che separa la notte dal giorno, in modo che non si confondano. Colei che separa i vivi sopra la terra dai i morti sotto la terra”. Antigone si appella a questo. E questo è lo schema elementare, ed è una tensione che attraversa tutta la storia del diritto: c’è sempre il desiderio che la legge corrisponda alla giustizia. Però è una tensione che non si può mai risolvere. Sofocle ce la offre in una figura di estrema divaricazione, perché mette in scena due posizioni inconciliabili».

E qui arriviamo all’elemento più inquietante, al di là delle aporie giuridiche tra diritto positivo e diritto naturale. Continua Cavarero: «C’è qualcosa di più profondo, e di più, come direbbe Freud “perturbante”. Perché Antigone si appella all’elemento del “ghenos”, il generare. Quindi, ricordando le vicende familiari del mito: Giocasta ha generato Edipo, e poi si è unita al figlio Edipo e insieme hanno generato altri figli: Antigone, Eteocle, Ismene, Polinice: l’elemento del “ghenos” a cui fa appello Antigone è anche un elemento chiuso, uterino, incestuoso. George Steiner dice che Antigone parla dalla profondità dell’utero. C’è una aderenza di Antigone a questa genealogia di sangue, che è una genealogia incestuosa».

Sarebbe facile insomma dare ragione ad Antigone, non fosse che nelle sue ragioni, posizioni, intenti, c’è anche la famiglia come chiusura, come incesto, come mafia. Ma anche questo è un elemento, in una forma molto arcaica, del femminile. Conferma Cavarero: «Io non sono junghiana, ma se qualcuno lo fosse si tratterebbe di una specie di archetipo del femminile materno generante legato alla terra. Basti pensare ai riti arcaici della Grande Madre. Una posizione molto interessante, come tutto ciò che è arcaico un po’ oscuro, un po’ spaventoso».

Una posizione che la filosofia a seguire, quella del Logos, ha fatto di tutto per negare. «La storia della filosofia, da Parmenide a Platone in poi, è una forma di razionalità (così la chiameremo modernamente) che si oppone a tutto ciò che è arcaico» spiega Cavarero.

E a questo punto ci si chiede se in questo modello di femminile “arcaico” ci sono degli elementi da recuperare. «Nella teoria femminista contemporanea c’è anche questo filone della rivalutazione del materno e io mi riconosco in questo filone» risponde Cavarero. «Non si tratta del materno banale, asservito, della donna “oblativa” che sta nella famiglia, non è tanto questo, ma quello che Luce Irigaray chiamava “il femminile irriducibile”. Fatto non solo di buoni sentimenti e buone intenzioni. Ma anche di uno scintillio di pericolo».

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