Tutti siamo andati a scuola, di conseguenza tutti abbiamo un’opinione sulla scuola. Fa parte di quegli argomenti intorno ai quali nessuno esita a dire la propria. Ma quasi tutte queste opinioni sono pigre, puerili e in fondo inutili. Nascono dal residuo dei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza.

I ricordi sono poi rielaborati in età adulta in base al nostro sistema di valori, e talvolta si arricchiscono dell’esperienza ambigua dell’essere genitori, nonni, zii o conoscenti di qualcuno che a scuola ci va (i ragazzi ai quali chiediamo «cos’avete fatto oggi in classe?», e loro, a tutte le latitudini, rispondono «niente»). Le opinioni così formate ci servono per fare salotto, per criticare la politica quando finge di occuparsi di istruzione, per lamentarci dei giovani come massa indistinta che abita il sistema scolastico, per preoccuparci confusamente dei nostri figli, per segnalare i problemi culturali e la decadenza del mondo intero. In verità non sappiamo nulla della scuola e il nostro parlare non serve a nulla. Ma parliamo.

Scuola di periferia

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Per tutte queste ragioni deprimenti sono felice che sia uscito proprio adesso Domani interrogo di Gaja Cenciarelli (edito da Marsilio). Forse i politici dovrebbero leggerlo, ma non so se abbiano il tempo di farlo, visto che devono curare il loro profilo TikTok. Domani interrogo è un romanzo, un resoconto, non importa. È un bel libro. Un libro sulla scuola, anzi no, non basta, è un libro sulla scuola italiana, che forse è più scuola di tutte le altre. La scuola italiana di periferia, per giunta: dunque è anche un ritratto del contesto, ed è un contesto che ci dovrebbe interessare.

È un libro sulle entità dai confini formalmente definiti, ma in realtà sfuggenti: l’edificio scolastico, il quartiere, la grande città, e di nuovo l’edificio. Soprattutto l’edificio. «Per pas­sare da una classe dell’ala vecchia a una dell’ala nuova ci vogliono sette minuti a piedi, a passo svelto, e sei rampe di scale. Le pareti sono scrostate, nelle aule c’è la lavagna elettronica ma funziona male, e l’audio è sempre una sorpresa. Quando non ci sono studenti, la scuola si riempie di rumori metallici, le porte cigolano, si sentono fruscii. Gli ascensori conviene non prenderli». 

Poi c’è il tempo: «C’è una specie di sorriso, nella scuola, a settembre e ottobre, una speranza, che si spegne a novembre. Dicembre e gennaio sono tollerati. Febbraio e marzo sono la rassegnazione. Aprile è ferocia e disincanto. Maggio è follia. Giugno è una felicità stanca che diventa rimpianto. Luglio è un “se”, e la scuola diventa solo un luogo. Agosto è l’angoscia delle possibilità». Dentro l’edificio e dentro il tempo troviamo gli studenti, nominati e raccontati uno per uno. La classe. Margherita, Sofia, Francesco, Alessandra, Marco, Daniele, Tarek, Rabhil, Bolivia, Flavio…

Stare a scuola

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Gaja Cenciarelli è scrittrice e traduttrice, ma è anche un’insegnante d’inglese alle superiori. Il ruolo di insegnante un giorno deve aver attraversato la sua identità, per poi impossessarsi di lei quasi del tutto. La scuola è lei? Quella donna che sgrana gli occhi, che si arrabbia, che sorride a tratti, che parla di modernismo e di Virginia Woolf, che si commuove e si nasconde, che osserva tutto con lucidità, che fuma una sigaretta, due sigarette, molte sigarette?

Leggendo Domani interrogo per prima cosa pensiamo che capire la scuola significa starci. Viverci dentro. Osservare, ma non come si guarda una scatola vuota che riempi di ricordi. Devi esserci, devi aver attraversato gli estremi che l’esperienza didattica ti propone di attraversare. Non tutti gli insegnanti accettano di farlo. Alcuni si tengono dentro i confini di una urbana professionalità. Ma alcuni vanno oltre, e allora diventano come Tiresia: fanno esperienza dei poli opposti, per loro non c’è più mistero.

Amore e salvezza

Gaja Cenciarelli ha scritto un libro nel quale c’è una grande consapevolezza letteraria, e dunque nessuna esibizione, ma spessore e mestiere. Il libro si legge come un’avventura, l’avventura dell’anno scolastico, però è anche una storia di ossessione amorosa, dove l’amore non è romantico, ma è «l’amore della resistenza». Il sentimento di un’insegnante per i suoi studenti. La comunità. «Questo è l’amore che resta, che non scappa, che fa male, è l’amore a perdere, che non sarà mai ricambiato, l’amore che deve accompagnare e non pretendere, l’amore che ti prende a parolacce; questo è anche l’amore egoista, che salva in primo luogo chi lo prova».

Naturalmente questo amore viene anche criticato. «I colleghi continuano a dirle che se avesse una famiglia sua non avrebbe così tanto tempo da dedicare agli studen­ti (…). Lei sa che non è vero, ma gli lascia credere che questo amore caparbio ed egoista sia una conseguenza della mancanza di figli». 

È anche un libro beckettiano, sul senso di estraneità rispetto all’umanità intera e contemporaneamente sulla vicinanza massima e bruciante, sulla particolarità di un vissuto che porta a dare del mondo una definizione dolorosa. «A ricreazione, in sala professori, si parla la lingua dell’esasperazione e della stanchezza». Come un personaggio di Samuel Beckett la professoressa ha i suoi ritornelli: il fallimento, sbagliare tutto, non essere una vera insegnante, «la professoressa non sa ancora che…», il verbo salvare. L’obiettivo del libro è aprire la porta, e la porta si apre, per noi.

La classe allora ci viene mostrata. Claustrofobia e agorafobia. Un luogo minuscolo in cui rimbalzano moltissime parole, le parole dell’insegnante agli studenti, le parole degli studenti all’insegnante, volgari, delicate, crudeli, esatte. È anche un libro molto divertente, con vaste aree di commedia, e lo è proprio attraverso le parole.

Esiste la questione della lingua nella scuola, che poi è il primo problema che la professoressa affronta quando pensa che agli studenti dovrà parlare in inglese, sì, ma anche in dialetto, se vuole avvicinarsi. Deve imparare a «nominare il loro mondo». L’insegnamento è questa massa di parole, di dialogo, di linguaggi. Non c’è altro, in fondo. È bizzarra l’idea di riunirsi in un luogo per alcune ore al giorno allo scopo di imparare per esempio cos’è un movimento letterario.

Ma lo scopo, poi, è davvero questo? I ragazzi vogliono vivere, vogliono guadagnare bene spacciando (ci viene spiegato che in questo microcosmo di periferia “spacciatore” è sinonimo di “studente”), e tutti fanno uso di droghe, ma senza enfasi, come una cosa qualsiasi. Non sono attratti dall’onestà, non per cattiveria, per mera constatazione: le diranno che per loro ormai è tardi. I ragazzi vogliono vivere, non vogliono sopravvivere, non vogliono finire a guadagnare un piccolo stipendio da insegnante (e lo dicono a lei, proprio a lei). I ragazzi vogliono salvarsi? La parola salvezza ha, nel libro, più di un significato. Ma non è un libro edificante, non c’è volontà di essere esemplari. Solo una frase scarna che deriva dall’amore: «L’unica occasione che avete è la scuola».

Complessità

A un certo punto sull’edificio cade la neve e si parla di morti, e dunque appare Joyce, la professoressa spiega Gente di Dublino. Ai ragazzi Joyce piace, e lei si stupisce, Joyce è difficile, forse ha semplificato troppo? Ma no, no: hanno capito al volo cos’è la paralisi joyceana. Poco dopo in classe si parla di politica, ci sono delle elezioni imminenti, i ragazzi hanno 18 anni, voteranno. La professoressa non entra nei dettagli, spiega solo di essere contraria a ogni discriminazione, i ragazzi la guardano con aria interrogativa, poi alcuni di loro spiegano che voteranno Lega, Fratelli d’Italia, Cinque Stelle, CasaPound. I partiti vicini alle persone, dicono, i veri partiti “di sinistra” che pensano alla periferia.

Scioccati, si rendono conto di colpo che la professoressa non vota questi partiti. La neve intanto cade e una sensazione di tradimento ricopre le cose: i ragazzi hanno capito Joyce, ma la realtà ha anche fatto sì che maturassero certe idee politiche. Sbaglia chi pensa che una cosa escluda l’altra, e il libro è qui per ricordarcelo. La scuola non è un esercizio di semplificazione. La scuola non finisce mai. Poi, un giorno, finisce.

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