Il primo morto ufficiale per overdose da eroina in Italia c’è stato nel 1973, i “tossicomani”, come venivano definiti allora, erano qualche centinaio. Questo non ha impedito alla stampa di destra di scatenare la prima grande battaglia mediatica contro i “capelloni comunisti” che, di lì a poco, avrebbero “distrutto dall’interno la nostra civiltà”. Nel 1979 i morti sono 129, i “tossicomani” migliaia. Ma non vi sono campagne mediatiche contro gli eroinomani, perché terrorismo e questioni sociali di vario tipo polarizzano il discorso pubblico.

I numeri, comunque, non sono certi: la nuova legge che disciplina uso e commercio di sostanze stupefacenti, la 685 del 1975, prevede che vi sia scambio di dati fra regioni e amministrazione centrale ma questo non accade se non in minima parte. Il numero dei morti rimane indefinito fino a metà del decennio successivo.

Lo denuncia Giovanni Berlinguer nel libro intervista La droga fra noi (Editori Riuniti) del 1980. L’uso politico di questa incertezza è, per Berlinguer, un problema serio su cui riflettere. L’allarme sociale costruito intorno al “flagello droga” e le risposte politiche allo stesso, su quali dati si fondano?

Si inizia a disporre di dati certi sui consumatori patologici di eroina soltanto in seguito alla diffusione dell’Aids, morbo che in Italia colpisce prevalentemente le persone che fanno uso della sostanza per via iniettiva.

Dal 1987 è obbligatorio notificare i casi di infezione a regioni e Istituto superiore della sanità. Un provvedimento che suscita polemiche, si teme la “schedatura” dei malati.

Sappiamo che in seguito alla diffusione dell’Aids vengono messe a punto le prime esperienze di riduzione del danno (distribuzione di siringhe pulite per esempio), ma sappiamo anche i dati relativi ai malati/drogato creano un vero e proprio clima di panico morale.

Paura del drogato

Il drogato adesso non fa più solo schifo, (perfetta la descrizione che ne fa Christiane F. nel libro inchiesta che esce in Italia nel 1981). Ora il drogato fa paura, una paura che si diffonde in ogni ambiente, in ogni contesto, perché la siringa abbandonata e infetta può nascondersi ovunque.

Sulla spiaggia, nel cortile della scuola, al parco. La siringa può essere usata addirittura come un’arma, come denunciano decine di articoli nelle cronache dei maggiori quotidiani nazionali. Il drogato, dunque, deve essere tolto dalla strada il più in fretta possibile. Con ogni mezzo necessario. Non si tratta solo di decoro pubblico, ma di salute pubblica.

I dati diffusi nei tardi anni Ottanta fanno da architrave a un vero e proprio cambio di paradigma: dagli Stati Uniti, infatti, abbracciato dal leader socialista Bettino Craxi, sta arrivando il reaganiano del Just say no. Basta dire di no.

Se ti droghi e muori è colpa tua, basta dire di no. Per questo il drogato deve essere punito, perché non ha detto di no. Il parlamento inizia a rivedere la legislazione sulle droghe: si staglia all’orizzonte, malgrado l’opposizione del Pci e di parte della Dc, nonché ovviamente del Partito Radicale da sempre in prima linea nelle battaglie antiproibizioniste, la famigerata legge Vassalli Jervolino, che reintroduce il principio di punibilità di chi fa uso di sostanze, un principio eliminato nel 1975.

Il dato diffuso adesso è quotidianamente, il numero dei “caduti”, la metafora della droga come di una guerra in atto, sposta progressivamente l’opinione pubblica su posizioni punitive. Si fanno largo nell’immaginario collettivo figure di moderni santi-guaritori come quelle di Vincenzo Muccioli o don Pierino Gelmini, entrambi fautori di posizioni proibizioniste.

Ossessione pasticca

Una volta ottenuta la legge del 1990, l’eroina, come problema sociale, inizia a scomparire dai radar dell’informazione, entra in scena la “pasticca”, la nuova ossessione del decennio, chi muore di overdose è un residuo degli anni Ottanta.

Ma nel 1996 si hanno 1556 morti per overdose, una cifra mai raggiunta prima (né dopo). Chiedete a chiunque: quando c’è stato il massimo picco di morti per eroina in Italia? Tutti, nessuno escluso, risponderà: negli anni Ottanta. Ancora una volta dati e percezione della realtà non vanno di pari passo.

Nel 1986 i cittadini degli Stati Uniti sono convinti che le droghe stiano invadendo la nazione come una “peste bianca”. Eppure, in base ai dati governativi, il consumo di eroina, ma anche di cocaina, tra il 1979 e il 1985 è diminuito di circa il 12 per cento.

Questa tendenza continuerà per tutto il decennio fino ai primi anni Novanta, come riportano i dati raccolti ogni quattro anni dal Nida (National institute of drug abuse). Perché, allora, si sono chiesti gli studiosi del fenomeno, gli americani hanno creduto che il consumo di “droga” fosse in aumento quando le prove disponibili suggerivano il contrario?

Nel 1990 Pino Arlacchi scrive «il campo delle opinioni sul problema della droga è largamente dominato in Italia come altrove, da ciò che si potrebbe chiamare “il sapere intuitivo”: da quell’insieme di valutazioni basate sul senso comune, ma che tutti reputano ben ponderate, circa una serie di intricate questioni quali le “ragioni che spingono i giovani alla tossicodipendenza”, le dimensioni dell’economia e dei profitti clandestini, le responsabilità della criminalità organizzata, il “che fare” per risolvere, ridimensionare o semplicemente convivere col problema».

Il sapere intuitivo è guidato da opzioni di volta in volta morali o politiche e niente ha a che vedere con la complessa realtà dei fatti. Il fatto che il numero dei morti per overdose nell’Italia dei primi anni Novanta aumenti in modo così visibile dovrebbe far ragionare sull’impianto normativo, sulla sua applicazione. Eppure, quando si tornerà a mettere mano alla legge, nel 2006, i provvedimenti seguiranno la stessa logica punitiva, evidentemente fallimentare.

Crack e complotti

Un caso clamoroso di lettura strumentale a fini politici dei dati relativi alle sostanze psicotrope è quello che investe gli Stati Uniti intorno al consumo di crack.  Il crack non è una “droga” nuova, il crack è cocaina in cristalli che diversamente dall’uso più iconicamente conosciuto, quello per via nasale, viene fumata.

Si diffonde in contesti più fragili da un punto di vista economico: i ghetti afroamericani delle grandi città. Ormai numerose ricerche hanno dimostrato come la diffusione della sostanza si sia saldata a un contesto impoverito da politiche pubbliche neoliberiste, tagli alla sanità, restrizione del mercato del lavoro. Ma il racconto che se ne fa, mentre accade, è esattamente il contrario: la miseria di tante famiglie è causata dall’abuso degradante di crack.

Sui dati di questa crisi e la loro lettura distorta si costruisce una delle più importanti campagne mediatiche di tutti i tempi, ricostruita perfettamente nel documentario Crack: Cocaine, Corruption & Conspiracy (2021, regia Stanley Nelson).

Ne parla la storica Donna Murch facendo notare come, sebbene i dati dimostrassero chiaramente che il consumo di cocaina era diffuso soprattutto nella popolazione bianca, furono gli afro americani a essere più colpiti dalle misure repressive.

L’ Anti-Drug Abuse Act voluto da Ronald Reagan nel 1986 e sostenuto anche da larga parte della comunità Afro Americana porta a 100 cause per crack contro 1 per cocaina in polvere. Una mancanza di proporzione chiaramente dettata da una istanza politica dato che i sequestri di coca dimostrano chiaramente quanto il mercato sia fiorente nella comunità bianca.

Come ha scritto lo psicologo Carl Hart, docente alla Columbia University: «i fondi per la lotta alla droga hanno subito, tra il 1970 e il 2011, un incremento del 3500 per cento, ma ciò non ha inciso minimamente sull’uso quotidiano di marijuana, eroina o una qualunque forma di cocaina. E mentre il crack è stato visto come un problema limitato perlopiù alla popolazione di colore, a quanto rivelano le statistiche su base nazionale sono i bianchi, in realtà, i più inclini all’uso di questa droga.

A dire il vero, quando per la prima volta sono venuto a conoscenza dei dati reali sul consumo di crack e sull’origine etnica della maggior parte dei consumatori, in mezzo a molte altre false affermazioni riguardo a questa droga, mi sono sentito tradito, come se fossi vittima di un colossale imbroglio; un imbroglio perpetrato non soltanto ai miei danni, ma a quelli dell’intero popolo americano».

Dati oltre il senso comune 

Ormai è evidente che per capire la dinamica complessa del mercato delle droghe illegali (e anche di quelle legali smerciate in contesti di abuso) l’analisi dei numeri non può essere guidata dal senso comune. Anche perché i dati stessi sono un oggetto da maneggiare con cura.

Oggi i dati sul consumo di sostanze vengono raccolti dai SerD (Servizi per le Dipendenze), ma, mi fa notare Raimondo Maria Pavarin, responsabile dell’Osservatorio Epidemiologico Metropolitano Dipendenze della Azienda USL Bologna, che se si fa riferimento soltanto a questi rischiamo di perdere di vista il fatto che esistono molti consumatori di eroina o cocaina socialmente integrati che non si rivolgono ai servizi in quanto non ritengono di averne bisogno o non vogliono essere etichettati come tossicodipendenti.

Queste persone, quando hanno dei problemi, si rivolgono a professionisti o si recano al pronto soccorso. Invece, dice Pavarin: «a livello nazionale nella raccolta dei dati non è cambiato quasi nulla e le analisi sul fenomeno si basano ancora (come 40 anni fa) sui dati degli utenti dei SerD». Il servizio che dirige a Bologna cerca di ovviare il problema incrociando gli archivi dei SerD, le schede di dimissione ospedaliera, il sistema informativo degli accessi al pronto soccorso e i dati della cartella informatizzata della Psichiatria. 

«Utilizzare questi archivi ci ha permesso, ad esempio, di capire che la maggior parte delle persone con problemi dovuti all'uso di cocaina si rivolge al Pronto soccorso, e di analizzare le problematiche per cui ci vanno. Inoltre, riusciamo ad individuare anche fenomeni nuovi, come l'abuso combinato di cocaina+alcol e di cannabis+alcol, comportamenti di consumo ad alto rischio».

Ovviamente nessun dato da solo racconta niente. Dire, per esempio, che negli Stati Uniti, nell’ultimo anno, sono morte 100.000 persone per abuso di Fentanyl (un potente oppioide che, per il basso costo e la facilità nella produzione, ha soppiantato l’eroina negli anni di Covid), o che dal 1999 sono morte più di 932.000 persone per overdose di cui l’82 per cento per oppioidi potrebbe far pensare che il problema sia l’industria farmaceutica.

Infatti, molte inchieste si concentrano nell’individuare i nuovi capri espiatori, i cattivi capitalisti, come la famiglia Sackler, che dal 1996 ha messo in commercio Oxycontin, ritenuto ormai senza dubbi, uno dei veicoli della crisi degli oppioidi che ha devastato la classe media americana negli ultimi trent’anni.

Ma Fentanyl e Oxycontin sono farmaci legali anche in Italia, eppure qua, nemmeno con i proverbiali dieci anni di ritardo, la crisi è arrivata. Non basta insomma brandire i numeri e indicare un responsabile per capire cosa è accaduto: perché, come scrive l’antropologo Michael Agar, proprio queste persone, in questo luogo, e non altre? Occorre allargare lo sguardo insomma e vedere il contesto non solo socio economico ma anche sanitario in cui una sostanza si diffonde, come fa Lancet in una importante recente ricapitolazione di quanto è avvenuto.

Ancora Pavarin: «molto dipende dall'idea che uno ha del fenomeno. Ad esempio, un accesso al pronto soccorso per intossicazione alcolica acuta può essere letto o come 1) un problema sanitario, 2) una rinuncia ai propri ruoli sociali che può sfociare in devianza, 3) un problema sociale collegato a nuovi stili di vita giovanili, e magari anche alla condizione di essere un immigrato di seconda generazione».  

I dati in Italia

27/03/2013 Roma,Tira Dritto iniziativa di Croce Rossa Italiana e Villa Maraini per dire no alla cocaina con l'occupazione simbolica dei luoghi dello spaccio. Nella Foto un tossicodipendente si inietta una dose di eroina

Per il resto, nel nostro paese, i dati ufficiali sulle droghe, dal 1990, dovrebbero essere raccolti in una relazione al parlamento con scadenza annuale. In realtà questo lavoro ha tardato moltissimo a entrare a regime. Sul sito del Dipartimento per le politiche antidroga leggiamo, infatti, che solo dal 2010, è stato deciso di indicare sul documento l'anno di pubblicazione. Sicuramente molto ha pesato il pungolo costante dei vari Libri bianchi che dal 2009 riportano i dati sulle conseguenze legali della 309.

Le relazioni al parlamento si fondano principalmente sui sequestri effettuati dalle forze dell’ordine, quindi un grande sequestro di droghe rinvenuto in un container in transito alza molto la statistica. Ci sono poi i rilievi delle sostanze sequestrate ai consumatori o in base a quelle che vengono definite “parafernalia”, ovvero siringhe, cucchiaini ecc.al mercato illecito, sui consumi e sulle dipendenze.

Manca, invece, come ricorda il sociologo Claudio Cippitelli, un drug checking, sistematico, cioè un controllo chimico della composizione delle sostanze, realizzato dalle unità di strada e altri servizi, come avviene in larga parte in Europa. Un servizio essenziale perché costruito a partire dalla collaborazione dei consumatori ai quali non arrivano, per ovvi motivi, le allerte del Sistema Nazionale del Dipartimento per le politiche antidroga.

Sui consumi, dal 1999 viene realizzato dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr l’Espad Italia che dopo una prima rilevazione nel 1995, dal 1999 si ripete con cadenza annuale su un campione rappresentativo delle scuole superiori presenti su tutto il territorio nazionale.

Sulla popolazione generale, sempre il Cnr realizza dal 2001-2002 l’Ipsad, inviando questionari postali a un campione di tipo stratificato randomizzato a quota proporzionale e viene individuato sulla popolazione nazionale fra i e i 15-64 anni di età.  

Troppo pochi, invece, gli studi di tipo qualitativo, insiste Cippitelli. «Studi sociologici, psicosociali, antropologici e studi di specifiche realtà urbane, come avviene per esempio negli Stati Uniti e nel resto di Europa, gli unici che possono dare conto del significato societario che assumo le droghe, i mutamenti negli stili e i modelli di consumo, il ruolo che assumono nelle culture giovanili, la loro accettabilità sociale e la normalizzazione di determinati consumi».

Studi che andrebbero incoraggiati, finanziati, sostenuti. A farne le spese i consumatori, l’anello debole della catena. Consapevoli, dunque, dei limiti e delle criticità che si incontrano parlando di sostanze a partire dai dati disponibili continueremo questo racconto parlando di cannabis.

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