Questa non è la storia di uno scandalo di pedofilia e di grazie presidenziali fuori luogo, non è la storia di una presidente della Repubblica che si dimette, né di una ex ministra che era pronta a far da capolista del partito di Viktor Orbán alle elezioni europee e che dalla cima della lista deve battere precipitosamente in ritirata.

Certo, nel mese in cui Giorgia Meloni era impegnata a negoziare con il premier ungherese, mentre quest’ultimo annunciava un suo futuro ingresso nei Conservatori europei, e mentre l’opinione pubblica italiana si scandalizzava guardando le immagini di Ilaria Salis al guinzaglio, in Ungheria ci si è scandalizzati perché, da presidente, Katalin Novák ha graziato Endre Kónya, il quale aveva tentato di coprire casi di pedofilia. Poi Novák si è dimessa, e con lei anche l’ex ministra Judit Varga è crollata dal firmamento di Fidesz.

Ma la sequela di scandali e di dimissioni, che ha occupato il dibattito ungherese la scorsa settimana, non era che l’aperitivo. Il pasto principale porta il nome di Péter Magyar, ex marito di Varga, che da organico del regime orbaniano cambia maschera, rilascia una lunga intervista e scatena accuse contro il cerchio magico del premier.

Concentra il suo j’accuse in particolare su Antal Rogán, potentissimo ministro che controlla anche i servizi segreti, e che Magyar definisce «il Richelieu di Orbán». Ma i riverberi arrivano ben oltre, perché come spiega a Domani lo storico Stefano Bottoni «in un sistema di potere centralizzato in modo così estremo, concentrato così tanto su una figura, quella di Orbán, l’apparato non esiste indipendentemente da lui: qualsiasi tipo di insubordinazione verso l’apparato è un’insubordinazione anche verso il leader».

L’intervista rilasciata domenica da Péter Magyar a Partizán ha attratto in meno di 24 ore quasi un milione di visualizzazioni, e Bottoni – che con le sue biografie eretiche del premier ungherese ne denuncia da anni le derive dispotiche – considera quell’ora e tre quarti di dichiarazioni come «una radiografia pubblica del funzionamento del sistema orbaniano». Ecco qual è la vera storia: anche in un sistema che ha maglie così strette qualcosa può sfuggire dalla trama. «In Ungheria è davvero molto raro che qualcuno dica come funziona il sistema». Che piani ha Magyar?

L’innesco: le dimissioni

Il terremoto politico comincia il 2 febbraio, quando il portale 444 rivela che nell’aprile 2023, contestualmente con la visita del Papa a Budapest, la presidente della Repubblica ungherese ha concesso la grazia presidenziale al vicedirettore dell’orfanotrofio di Bicske, che aveva cercato di coprire gli abusi pedofili, arrivando a forzare i bambini a prestare falsa testimonianza.

Katalin Novák è una fedelissima di Orbán, è stata la ministra della Famiglia della «famiglia tradizionale», della propaganda anti Lgbt, del World Congress of Families e del summit demografico di Budapest, ha rapporti stretti con leghisti come Lorenzo Fontana e ovviamente coi meloniani. Da presidente – un ruolo da lei assunto nella primavera 2022 – ha svolto il ruolo di maschera del potere: era lei a fare il viaggio in Ucraina, le missioni riconciliatrici, a gettare strati di cipria sulle contraddizioni orbaniane.

Ma quando il caso della grazia è esploso, il premier si è limitato a dire che la Costituzione andava cambiata per evitare che casi simili si ripetessero, e poi si è eclissato. Novák, che era in missione, ha dovuto salire su un aereo di stato, indossare un tailleur color confetto, e annunciare sabato pomeriggio le sue dimissioni. Perché aveva concesso quella grazia, e fino a che punto Orbán era coinvolto direttamente in quella mossa?

Sappiamo che le pressioni per graziare Endre Kónya, che proviene dalla Transilvania e da una famiglia assai potente nella chiesa calvinista, sono arrivate da vari ambienti; uno è quello di Zoltán Balog, più volte ministro di Orbán e oggi vescovo della chiesa riformata. In Ungheria corre voce che Balog sia da tempo l’amante di Novák, e il portale di inchiesta Direkt 36 in questi giorni lo ha proprio scritto: «Balog ha spianato la carriera politica di Novák, vent'anni più giovane di lui, e dal 2012 hanno avuto una relazione stretta»; formalmente lei per anni è stata capo di gabinetto nel ministero di Balog, che è vicinissimo alla famiglia Orbán, al premier ma pure a sua moglie.

La bomba: le accuse

Con Novák è caduta anche Judit Varga, che da ministra della Giustizia recitava la propaganda orbaniana contro Bruxelles, e che da quell’incarico si era dimessa per altri scandali, ma pareva proiettata come capolista verso l’Europarlamento, dove – stando ai rumors – avrebbe potuto vivere anche più liberamente la sua omosessualità.

Il suo ex marito, Péter Magyar, non un politico da ribalta ma un’influente figura organica di Fidesz, ha preparato la riscossa; covava già a inizio febbraio, quando citando Giovanni Paolo II scriveva sui social: «Non abbiate paura». Poi si è dimesso «dalle mie cariche in aziende pubbliche e consigli di vigilanza: non voglio far parte di un sistema nel quale i veri capi si nascondono sotto le gonne delle donne».

E infine il j’accuse di domenica. Varga non voleva firmare quella grazia, i due volevano divorziare prima ma il “ministro della propaganda” orbaniano Rogán li ha costretti ad aspettare; li ha persino spiati. «Magyar descrive un regime nel quale vige la sindrome di Stoccolma: tutti, e persino chi è in cima al potere, vengono controllati e maltrattati; lo stato funziona come una mafia a conduzione familiare», sintetizza da Vienna l’analista ungherese Péter Techet.

C’è chi nell’opposizione già si entusiasma e vede in Magyar il granello di sabbia che può inceppare gli ingranaggi; altri pensano a regolamenti di conti interni. Certo, in questa storia il gattopardo sarà Orbán: l’importante è che, se qualcosa cambia, non si tratti di lui.

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