Ci sono libri che contengono storie, e poi ci sono libri che sono in sé una storia. È in sé una storia, un libro che viene stampato in una tipografia segreta, per esempio. «Abbiamo un patto: non dobbiamo rivelare qual è». Ed è in sé una storia, un libro che «nessuno era abbastanza coraggioso da pubblicare», come dice Csaba Lukács, che si è reinventato editore per l’occasione.

Che libro è questo, allora? Cosa conterrà mai di così eretico da dover essere stampato senza che si sappia dove? Nessuno immaginerebbe mai che la risposta a questa domanda sia: la rigorosa opera di uno storico. Nessuno lo immaginerebbe, a meno di rivelargli un dettaglio: l’opera ha un protagonista che non ammette critiche, Viktor Orbán, e viene stampata in Ungheria.

Questa è la storia di un libro il cui titolo recita: A hatalom megszállottja. Orbán Viktor Magyarországa, che in italiano suona: Stregato dal potere. L’Ungheria di Viktor Orbán.

L’autore e il «despota»

A scriverlo è stato lo storico Stefano Bottoni. Insegna storia dell’Europa orientale a Firenze, e in precedenza ha fatto ricerca all’accademia ungherese delle scienze: «Sono un cervello rientrato in Italia», scherza lui. Non si può dire che sia semplicemente italiano, né che sia ungherese: Bottoni ha passato mezza vita di qua, mezza di là. Il primo quarto di secolo a Bologna, e un’altra ventina d’anni a Budapest: oltre alla madre, anche la moglie è ungherese; i figli di Bottoni padroneggiano con disinvoltura entrambe le lingue.

Seguendo i crismi di un intellettuale che di lingue se ne intendeva, Bottoni è da definirsi a tutti gli effetti europeo: come diceva Umberto Eco, «la lingua dell’Europa è la traduzione». Il fatto è che non sempre tradurre – far parlare mondi, mettere in comunicazione culture, convertire da un contesto all’altro – è cosa semplice. Portare una biografia di Orbán in Ungheria, per esempio, si è rivelata un’impresa.

«A novembre del 2019 era già uscito il mio libro italiano, Orbán. Un despota in Europa. A distanza di quattro anni, in Ungheria Orbán è più despota, mentre c’è meno Europa. Il sistema orbaniano è uscito dalla zona ibrida ed è entrato nitidamente in quella che tra studiosi chiamiamo patronal autocracy, autocrazia padronale».

Tra l’edizione italiana e quella ungherese intercorrono quattro anni, una pandemia, la guerra in Ucraina, e una svolta; va detto che già nel 2019 Bottoni aveva inquadrato le derive dispotiche del premier, ma oggi sono maturate. «Basti pensare che lo stato di emergenza in Ungheria è stato continuamente prorogato, e vige tuttora: si governa spesso per decreto. Nella versione ungherese del mio lavoro, poi, il rapporto di Orbán con la Russia diventa un tema centrale: ricostruisco tutto l’arco delle sue relazioni con Putin».

Fino a pochi anni fa, il premier ungherese stava ancora dentro l’abbraccio dei popolari europei; oggi «è più isolato, e più pericoloso». Non è difficile immaginare che al diretto interessato – Orbán – questa lettura sia sgradita. E in una «autocrazia padronale» i gusti di uno fanno la differenza per tutti, se quell’uno – l’autocrate – ha tutto in pugno: governo, parlamento, media, università, e in sostanza un paese intero.

Se si tratta di libri, non ci si ritrova certo all’improvviso in una oasi di libertà, anzi: Bottoni spiega che nel 2021 la presa della cultura da parte di Orbán ha fatto un salto di qualità anche sul quel fronte. «La più grande casa editrice ungherese si chiama Libri e ha anche un’ottantina di punti vendita in luoghi strategici come i centri commerciali, ma due anni fa l’MCC si è preso il 25 per cento di Libri». L’MCC sarebbe il Mathias Corvinus Collegium, una galassia di università, servizi educativi, think tank, che ruota immancabilmente nell’orbita orbaniana.

Un pianista e un direttore

Anche l’editoria è «un mercato il cui attore principale è chiaramente riconducibile al sistema di potere orbaniano», per dirla con Bottoni, il quale a lungo, e invano, è andato in cerca di un editore che volesse pubblicare la sua opera in Ungheria. «Ma diversi contatti con editori ungheresi non erano andati a buon fine. Era emersa – come definirla – una certa ritrosia... C’era il timore che pubblicare il mio libro potesse arrecare danni, magari nel perdere finanziamenti pubblici, o in altro». Non è che a Bottoni, figura di rilievo e non certo uno sconosciuto nel dibattito pubblico ungherese, gli editori l’abbiano proprio detta in modo schietto. Ma a farlo ci pensa il direttore di giornale Csaba Lukács: «Era chiaro che nessuno era abbastanza coraggioso da pubblicare il suo libro».

Lukács sa cosa voglia dire, sia non riuscire a pubblicare, che farsi coraggio. Ad aprile del 2018 gli è toccato scrivere l’editoriale più difficile della sua vita: quello intitolato Vége, e cioè Fine . Le elezioni parlamentari avevano appena consegnato a Orbán l’ennesimo mandato, e Magyar Nemzet, il giornale critico verso il governo, per il quale Csaba Lukács aveva lavorato per quasi vent’anni, si era avviato verso una brusca chiusura. «Il mio mondo era collassato».

Poi però Lukács ha tirato su un giornale nuovo, che tuttora dirige: si chiama Magyar Hang, è un settimanale, è una voce libera, e si regge sui suoi abbonati, anche perché se sei indipendente non puoi contare certo sulle inserzioni pubblicitarie. Pure le grandi case automobilistiche tedesche sono pavide su questo. Per non parlare dei fondi pubblici: di recente Lukács si è chiuso in archivio per giorni e ha accertato quali testate hanno potuto godere dei soldi del governo ungherese per la pubblicazione di pubblicità sociali. «Lo slogan del governo durante la pandemia era: “Ogni vita conta”, ma a quanto pare non proprio ogni vita, visto che quell’inserzione, e i soldi per pubblicarla, sono finiti solo sulle testate filogovernative», racconta. «Le sei indipendenti non hanno preso una sola pubblicità, né un solo fiorino!».

Lukács ha deciso di sfidare legalmente il governo Orbán, anche in sede europea, «perché distorce il mercato». Nel frattempo c’è un’altra sfida che è già compiuta: la pubblicazione del libro di Bottoni sul despota. «Csaba ha letto un mio post su Facebook in cui mi sfogavo, e mi ha contattato», racconta il professore. «Non era nei miei piani fare l’editore di libri – dice Lukács – ma sentivo che c’era in qualche modo una condizione comune, con Stefano». Così Magyar Hang, il settimanale, si è reinventato casa editrice per l’occasione.

Ma non è finita qui: se questa fosse una fiaba, che segue lo schema di Propp come tutte le fiabe, allora il "donatore che conferisce il mezzo magico” sarebbe impersonato da Adam Fellegi, «un anziano pianista ebreo ultraottantenne che è stato decisivo», come racconta Bottoni. «Ha detto: io ci metto mille euro, e soprattutto, ha lanciato un’idea: una raccolta fondi popolare per pubblicare il libro su Orbán». Proprio come Magyar Hang vive degli abbonamenti e si regge sui lettori, così la biografia scomoda sul despota ora è stampata grazie al crowdfunding. Il sostegno è stato così ampio – centinaia di sottoscrittori – che i soldi avanzano e saranno in parte restituiti.

E la tipografia? Magyar Hang è abituato a stampare all’estero, a Bratislava, ma «per il libro di Stefano siamo stati fortunati e abbiamo trovato chi ce lo stampa in Ungheria. A una condizione: che la tipografia resti segreta».

Ora che il suo libro può essere comprato e letto dagli ungheresi, se dipendesse solo da Bottoni, quale lieto fine sceglierebbe per la storia sul suo libro? «La società ungherese ha permesso a Orbán di acquisire tutto questo potere e non è stata in grado di fermarlo: è come se avesse assistito con occhi sbarrati a un tir che travolge un ciclista. Neanche l’opposizione, in Ungheria, si salva. Mi piacerebbe che i lettori realizzassero che la democrazia è come un dinosauro: se non la difendono, si estingue».

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