Emmanuel Macron è l’unico dei candidati alle presidenziali francesi a trovarsi già all’Eliseo e sapere con certezza di dover affrontare sia il primo turno, domani, sia il ballottaggio. La sua, più che una corsa, è una maratona.

Marine Le Pen lo incalza nei sondaggi, e nel giro di qualche giorno la distanza tra i due si è incredibilmente ristretta. Il giorno in cui Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, i sondaggi davano al presidente-candidato il 30,5 per cento di voti al primo turno.

La leader del Rassemblement National era al 14,5. Oggi invece i due si trovano, secondo la media delle ultime rilevazioni, al 27 per cento, Macron, contro il 23 della sua avversaria. Uno dei fattori è che l’effetto della guerra in Ucraina si sta spegnendo, e impone un cambio di strategia.

Presidente in felpa

Domenica 13 marzo, Soazig de la Moissonnière, la fotografa ufficiale di Emmanuel Macron, ha preparato un set di immagini che è stato divulgato sui canali social dell’Eliseo. Il presidente aveva la barba incolta, indossava una felpa e non guardava nell’obiettivo, tutte e tre condizioni fuori dal comune.

Quello che l’immagine voleva raccontare era proprio una condizione fuori dall’ordinario, quella di presidente assorbito dagli sforzi diplomatici per provare a disinnescare la guerra in Ucraina. Sulla felpa un simbolo, CPA10. Un richiamo all’aeronautica militare.

Chi conosce la macchina della comunicazione presidenziale, come Gaspard Gantzer che è stato a capo della comunicazione di François Hollande quando era all’Eliseo, ha chiaro che «niente di quelle foto è lasciato al caso, c’è un lavoro sull’immagine, la messa in scena serve a dirci qualcosa e cioè che Macron lavora giorno e notte» sulla guerra.

Dopo aver aspettato fino all’ultimo per ufficializzare la sua candidatura – il 4 marzo è scaduto il termine per presentare le firme degli sponsor, i parrainages, e il presidente ha fatto l’annuncio il giorno prima – Macron ha offuscato la veste di candidato sotto la giacca del presidente di guerra.

Strategia di guerra

Questa strategia ha permesso fino a un certo punto a Macron di beneficiare di quello che i francesi traducono come effet drapeau, e che in italiano è la «stretta attorno alla bandiera», o «effetto bandiera».

Il concetto serve a descrivere due effetti in frangenti di guerra: l’aumento di consenso attorno al leader e, viceversa, la restrizione degli spazi di dissenso. I dati dicono che Macron ha effettivamente goduto di questa dinamica: a una settimana dall’inizio dell’invasione, ha guadagnato quattro punti percentuali e il 4 marzo ha raggiunto il 28 per cento delle intenzioni di voto.

Quando John Mueller ha teorizzato l’effetto bandiera erano gli anni della Guerra fredda. Nel suo studio Presidential Popularity from Truman to Johnson del 1970, il politologo precisa che perché l’effetto si dispieghi l’evento di guerra deve coinvolgere la nazione in questione, quindi il suo presidente, ed essere «drammatico e ben focalizzato».

Quando è stato interrogato dai cronisti a margine del Consiglio europeo informale, da lui ospitato nella reggia di Versailles, su come mai le sue iniziative non avessero fermato la guerra, Macron ha chiarito che «noi non siamo in guerra, noi siamo sul terreno del conflitto».

Ma al contempo nei giorni precedenti e successivi all’aggressione il presidente ha esibito un certo protagonismo: una missione al Cremlino a inizio febbraio, e numerose telefonate con Putin. Poi i discorsi alla nazione, i bollettini dell’Eliseo. Per molto tempo la comunicazione presidenziale – ed elettorale – è stata incentrata sul discorso di guerra.

La campagna del silenzio

Fino a metà marzo, la macchina della comunicazione elettorale è rimasta in sordina rispetto a quella presidenziale ufficiale, dedicata agli eventi in Ucraina. Anche i media più accreditati del paese, come Le Monde, parlano di una «campagna del segreto».

Macron centralizza le informazioni puntando sulla parsimonia di messaggi e tiene «alla larga i giornalisti», scrivono i giornalisti Alexandre Lemarié, Claire Gatinois e Olivier Faye. Rifiuta i confronti con gli altri candidati e «siccome va bene nei sondaggi si chiede probabilmente se gli convenga far campagna».

Intanto però, da presidente, Macron comunica eccome: rifiuta il dibattito con gli sfidanti, ma non di esporre la sua analisi della guerra, come ha fatto sulla rete tv TF1 la sera del 14 marzo. In uno spazio televisivo intitolato per l’occasione “La France face à la guerre” (“La Francia di fronte alla guerra”), otto candidati, tra i quali il presidente, hanno svolto ciascuno il proprio monologo sul tema.

Ma i giorni passano, e la strategia della bandiera mano a mano si logora. Temi come il potere di acquisto rientrano prepotentemente nello scontro politico, e in più c’è uno scandalo che incrina l’«effetto bandiera» per Macron.

La bandiera dimezzata

Dopo la seconda metà di marzo, la figura del presidente di guerra è stata offuscata dal dibattito sul caso McKinsey. Mentre la procura – il Parquet national financier – apriva un’indagine verso la società di consulenza per accertarne i tentativi di elusione fiscale, il 16 marzo il Senato, con un rapporto, denunciava il livello di dipendenza dei poteri pubblici dalle società di consulenza private.

Analizzando le prestazioni esternalizzate a queste società, il parlamento concludeva che «tra 2018 e 2021 le spese di consiglio di stato e ministeri sono più che raddoppiate, con una forte accelerazione – il 45 per cento – nel 2021».

Già oltre un anno fa il lavoro dei parlamentari sulla gestione della crisi sanitaria aveva messo in evidenza fino a che punto nell’èra Macron i rapporti fossero stretti: a marzo scorso, hanno iniziato a far luce su 28 contratti e 11 milioni di euro dati alle grandi società di consulenza durante la pandemia. Tra dicembre 2020 e gennaio 2021 McKinsey ha ottenuto circa 4 milioni per il supporto strategico e logistico del piano di vaccinazioni, che peraltro in Francia all’inizio è stato un flop. Con Macron il ricorso ai consulenti è aumentato.

Prima ancora di diventare presidente, ha affidato a loro la stesura del programma. C’è una fitta storia di porte girevoli: gli ex consulenti nei ministeri, gli ex politici da McKinsey. Ora la questione torna a pochi giorni dal voto, e contribuisce a invertire le tendenze dei sondaggi.

Ridiabolizzare Marine

A poche ore dal voto, la leader del Rassemblement National è pericolosamente vicina a Macron nei sondaggi, tanto che nel partito del presidente c’è chi si preoccupa davvero, in vista del secondo turno, e propone il contrattacco: rédiaboliser Marine, ricordare cioè che l’estrema destra non si è davvero “dediabolizzata”.

I legami di Le Pen con Putin, sanciti con i 9 milioni russi che ne hanno finanziato la campagna elettorale nel 2017, dovrebbero far funzionare questa strategia. Ma le elezioni ungheresi mostrano che non è così: il leader più filoputiniano dell’Ue finora, cioè Viktor Orbán, ha stravinto camuffando le sue ambiguità sotto lo slogan della pace. Stavolta è stata una banca ungherese a prestare oltre dieci milioni a Le Pen.

Quando il premier polacco Mateusz Morawiecki accusa il presidente francese di «negoziare» con Putin, Macron lancia l’affondo: «Interferisce nelle elezioni a favore della sua alleata Le Pen. Lei si che con Putin è indulgente». Basterà ricordarlo per riprendersi il consenso perso?

Intanto lo scontro è diventato internazionale. La Polonia in questi giorni ha negoziato con Bruxelles il via libera al piano di ristoro, arrivando a bloccare la tassa sulle corporation. Ieri il governo polacco ha alzato i toni dello scontro con Macron e convocato l’ambasciatore francese a Varsavia. Morawiecki ha reagito così alle parole del presidente francese che su Le Parisien lo aveva definito – a sua volta in reazione agli attacchi del premier polacco – «un antisemita di estrema destra che se la prende con le persone Lgbt».

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