47,5 per cento contro 52,5 per cento. Il responso del sondaggio dell’istituto Elabe per Bfm Tv e L’Express datato 30 marzo su un ipotetico secondo turno dell’elezione presidenziale francese incentrato sullo scontro tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron ha di che lasciare sbalorditi.

Mai nessuna indagine demoscopica era giunta a pronosticare un duello così serrato, e soltanto quindici giorni prima i dati suonavano ben diversi, riproducendo quel rapporto 40 per cento-60 per cento che pareva essere il massimo traguardo raggiungibile dalla sfidante dell’attuale inquilino dell’Eliseo.

Soprattutto in una partita che, secondo la maggioranza degli osservatori, è già stata decisa in anticipo da Vladimir Putin con la sua entrata in campo a gamba tesa, che ha riproiettato sulla ribalta planetaria un presidente piuttosto acciaccato da contestazioni popolari e indagini amministrative sui troppo stretti rapporti di collaborazione con la società di consulenza manageriale McKinsey e con il gruppo Rotschild.

Molte decine di migliaia sono infatti gli opuscoli fatti stampare dalla presidente del Rassemblement national per illustrare la sua carriera che sono stati destinati al macero, rei di ospitare la fotografia di un incontro della candidata con il presidente russo.

Quella che avrebbe dovuto essere una prova della conquistata autorevolezza internazionale dell’aspirante alla guida della Francia, che già aveva raccolto attestazioni di stima da Viktor Orbán, si è in un lampo trasformata in un motivo di grave imbarazzo, su cui ovviamente gli avversari si sono affrettati a speculare.

Anche se Eric Zemmour, che si era maggiormente esposto in passato in elogi del capo del Cremlino, giungendo a definirlo «l’ultimo bastione contro il politicamente corretto, il comunitarismo gay e il multiculturalismo», ha subìto più di lei il contraccolpo dell’invasione dell’Ucraina, anche per l’esponente di punta del populismo transalpino l’inatteso evento è stato un duro colpo. Eppure…

L’ennesima rinascita di Marine 

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Eppure, malgrado questo nuovo intoppo, malgrado la memoria tuttora viva della clamorosa contro-prestazione nel dibattito televisivo fra il primo e il secondo turno delle presidenziali del 2017, che la vide schiacciata dialetticamente da Macron e travolta dal panico di fronte a sedici milioni e mezzo di spettatori, malgrado il lungo choc psicologico che quell’episodio le procurò, malgrado il palese sfaldamento del suo partito dopo la delusione delle elezioni regionali del 2021 e le defezioni di vari esponenti di primo piano sedotti dalle sirene dello zemmourismo, Marine – come ormai molti, fra i seguaci ma anche fra gli avversari, hanno l’abitudine di chiamarla, in qualche modo sgravandola del peso di un cognome che non è facile da portare – è sempre sulla scena da protagonista. E con il 21 per cento che l’inchiesta Ifop di fine marzo le accredita, continua ad essere la concorrente più accreditata a sfidare nel ballottaggio, per la seconda volta, Macron.

La prospettiva non è scontata, certo.

Proprio le regionali dello scorso anno, stando ai sondaggi, avrebbero dovuto segnare un successo del Rassemblement national, riconfermandolo – per voti, anche se non per seggi, dato il sistema elettorale in vigore – primo partito della scena francese, ma dallo spoglio dei bulletins de vote uscì, a causa della bassissima affluenza alle urne, un ben diverso riscontro, con una perdita secca di consensi ed eletti. E l’astensione è l’elemento che mette tuttora a rischio il pronosticato passaggio della candidata “patriota” (come ama definirsi) al secondo turno.

Sono sempre stati molti, infatti – tutti gli studi politologici lo attestano - gli elettori lepenisti che negli anni più recenti, pur dichiarando agli intervistatori la loro preferenza nel caso in cui avessero deciso di andare a votare, nei giorni fatidici hanno preferito restarsene a casa. E, paradossalmente, una delle motivazioni che li ha spinti a questo comportamento è la stessa che ha contribuito a far crescere, in seno all’opinione pubblica transalpina, l’apprezzamento per il Rn e la sua leader e, soprattutto, a far diminuire l’ostilità nei suoi confronti: il relativo successo ottenuto dall’opera di “sdemonizzazione” (dédiabolisation) che Marine Le Pen ha intrapreso da quando, nel 2011, ha ereditato dal padre la guida del Front national.

Le Pen, la moderata

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Smussando i toni della retorica paterna, epurando tutti i militanti e dirigenti colti in atteggiamenti estremisti o nostalgici, emarginando e poi costringendo ad allinearsi alla sua linea o ad andarsene gli esponenti delle correnti più connotate in senso antisistemico, dai cattolici tradizionalisti ai  giovani identitari, virando verso l’accettazione della laicità repubblicana e rifiutando di combattere la battaglia anti-Lgbt, anti-gender e anti-procreazione assistita sostenuta dalla Manif pour tous, ed infine modificando lo stesso storico nome della formazione che era arrivata a presiedere, Marine Le Pen ha di fatto, consapevolmente, deideologizzato il suo partito.

Nel contempo lo ha destrutturato sul piano organizzativo, trascurando sezioni e federazioni e riducendo le occasioni di incontro e di espressione pubblica dei militanti, che avrebbero potuto far tornare a galla le tracce di quel dna di destra radicale che il Front national aveva orgogliosamente esibito per quasi quarant’anni.

La cura da cavallo, sebbene accolta con uno scontato scetticismo dall’intellighenzia progressista, ha prodotto frutti significativi nell’opinione pubblica, facendo regolarmente calare i giudizi negativi sul conto della leader e salire il tasso di approvazione di alcune delle posizioni da lei sostenute, in particolare sui temi legati all’immigrazione e alla sicurezza.

Ma in parallelo ha tolto verve e capacità di mobilitazione al partito, la cui attività si è progressivamente trasferita dal territorio fisico a quello virtuale, attraverso un impiego quasi esclusivo di Facebook, Instagram, Youtube e degli altri canali offerti dalle reti sociali. Utile per parlare al grande pubblico, questa strategia di marketing non ha mostrato la stessa efficacia nei confronti dei sostenitori abituati al calore emotivo dei raduni in cui Jean-Marie Le Pen era solito far sfoggio della sua oratoria tribunizia, e gli effetti del calo di intensità affettiva si sono visti nel momento in cui si è trattato di contare i voti raccolti dalle liste della fiamma tricolore.

Accadrà così anche questa volta? Per scongiurare il pericolo, Marine Le Pen ha deciso di fare un altro passo avanti nell’addolcimento della sua immagine.

Invece di inseguire Zemmour nella gara al rialzo dei toni della Piazza e nella radicalizzazione dello scontro con il Palazzo, ha scelto un profilo basso e quasi intimista.

Nelle interviste televisive si è fatta filmare nel suo piccolo appartamento circondata dagli amati gatti, e nel comizio di apertura della campagna tenuto a Reims, la città dove venivano consacrati i re di Francia, dopo aver utilizzato parole come armonia, delicatezza, cortesia per descrivere il clima che vorrebbe veder rifiorire nel paese dopo la sua eventuale elezione, ha scartato le profezie apocalittiche e puntato su un’immagine di speranza.

Per poi scendere dal palco e concludere l’incontro con una sorta di colloquio con i presenti in cui ha confessato le sofferenze provate nel corso della sua vita: le discriminazioni a scuola, i divorzi, la difficoltà di trovare il tempo da dedicare ai figli.

Il tutto senza rinunciare a ribadire le linee fondamentali del suo programma, in cui trovano spazio il rimpatrio degli immigrati clandestini, misure vigorose per arginare la crescita dell’insicurezza, la lotta senza quartiere alla “comunitarizzazione” religiosa ed etnica della società, ma anche le preoccupazioni per il degrado ecologico, il sostegno statale alle categorie più fragili della popolazione e, soprattutto, il contrasto alle delocalizzazioni produttive, gli aumenti di salari ai ceti medio-bassi, la difesa del potere d’acquisto.

Insomma: all’attrazione che Zemmour esercita sulle componenti più conservatrici della borghesia transalpina, la rivale ha deciso di opporre un appello a quei settori sociali che ormai da vari anni le dimostrano maggiore vicinanza: gli operai, gli impiegati, i disoccupati, gli agricoltori, le donne (che nel suo elettorato sono più numerose degli uomini) e, in genere, tutti coloro che la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia hanno messo in difficoltà. Il pubblico, cioè, che un tempo faceva la forza della sinistra. Alla linea dell’unione delle destre ha preferito ancora una volta il né destra né sinistra. Al conservatorismo, il populismo.

Tra poco più di una settimana sapremo se la sua scelta ha colto nel segno.

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