C’è qualcosa che Viktor Orbán dice di non voler toccare, qualunque sia la portata delle difficoltà economiche che attraverserà in questo suo nuovo mandato, nel quale conta su una maggioranza che gli consente di fare tutto, anche cambiare di nuovo la costituzione. «Non taglierò mai le spese per la cultura», dice. E poi precisa meglio il suo manifesto per i tempi a venire: «Io intendo continuare la mia offensiva culturale».

Gli avamposti per l’offensiva, Orbán li ha già. Il Danube Institute e il Mathias Corvinus Collegium sono i think tank nati o cresciuti sotto l’impulso del governo, ed è vero che a questi avamposti il premier non ha mai fatto mancare le «spese culturali». Il loro ruolo non è solo di elaborare un apparato intellettuale a corredo della orbaniana «democrazia illiberale», ma soprattutto quello di snodi di una rete di supporto reciproco che coinvolge sovranisti e populisti di ogni sfumatura: in Italia ci sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che si sono congratulati con Orbán per la sua rielezione. Nel giro c’è anche la destra estrema di Éric Zemmour, che domenica corre per l’Eliseo, e c’è Marine Le Pen, che quasi per certo arriverà al ballottaggio. Ci sono gli antiabortisti vicini agli oligarchi russi, c’è l’alveo ultraconservatore polacco, l’ultradestra statunitense e il fantasma di Donald Trump. Più che avamposti culturali, luoghi come il Danube Institute sono presìdi di espansione politica illiberale.

I legami con il governo

I libri sono pochi, gli scaffali sono sguarniti, una biblioteca non c’è, e neppure vere e proprie sale per le lezioni. Quel che salta all’occhio, addentrandosi nel Danube Institute, sono i gorilla che con sguardo circospetto presidiano la sala antistante gli uffici e osservano chi entra. C’è un uomo della sicurezza proprio poco distante dal tavolino dove viene offerto un caffè, in attesa di incontrare il presidente dell’istituto, John O’Sullivan. L’ex consigliere di Margaret Thatcher, oggi intellettuale organico del premier e suo tramite con le destre internazionali, tiene a chiarire che non parla a nome del governo né è sempre d’accordo. Ma durante le due ore di conversazione alla sua scrivania, viene fuori la ragione delle guardie nei corridoi: negli spazi attigui all’ufficio di O’Sullivan, ha messo il suo ufficio provvisorio un pezzo di Fidesz, il partito del premier. Non è un pezzo qualunque, ma la neoeletta presidente della repubblica, una fedelissima di Orbán. Katalin Novak è stata ministra della Famiglia, dove per famiglia si intende «tradizionale», e ha condotto la battaglia contro quello che il premier ungherese ha definito mercoledì «il grande problema d’Europa»: il gender. Assieme al leghista Lorenzo Fontana, Novak ha condiviso eventi finanziati dagli oligarchi russi, come il World Congress of Families, e arringhe per una Europa «cristiana», ma soprattutto una rete comune di tessiture politiche. A marzo Orbán ne ha ricompensato la fedeltà lanciandola per la presidenza, e il parlamento ha votato; ora Novak aspetta solo l’esordio ufficiale dell’incarico. E aspetta al Danube Institute.

Da Thatcher a Orbán

Cosa direbbe Margaret Thatcher, della quale O’Sullivan è stato consigliere fidato, del premier ungherese? «I due all’epoca si sono incontrati, Margaret aveva una simpatia per i conservatori dell’Europa centrorientale, ed era a sua volta considerata da loro un’icona dopo la fine della guerra fredda. Ora Orbán non condivide più la stessa visione di libero mercato». E Thatcher, invece, condividerebbe forse l’idea di «democrazia illiberale» che il premier ungherese teorizza esplicitamente almeno dal 2014? Su questo O’Sullivan, ingaggiato dal premier proprio per costruire una patina di credibilità e una rete di rapporti internazionali, offre la seguente risposta: «Quando Viktor ha fatto quell’affermazione, l’ho incrociato a una festa, gli sono corso incontro, e gli ho detto: “Viktor, tu sbagli. Non stai invocando la democrazia illiberale. Sarebbe più corretto dire che tu stai obiettando all’imposizione indemocratica di politiche liberali”».

(John O'Sullivan. Foto Danube Institute)

L’ultimo libro di O’Sullivan si chiama The Woke versus the West. «C’è chi, come la mia ex amica Anne Applebaum, mi considera un traditore», ammette. Tra l’amicizia e il tradimento, tra i riferimenti a Ronald Reagan, il ruolo alla National Review e l’alleanza con il leader più filoputiniano dell’Ue, nel mezzo c’è appunto il trasferimento a Budapest da Orbán. «L’ho incontrato per la prima volta nel 1994. Due anni dopo ho lanciato la New Atlantic Initiative». O’Sullivan esibisce i firmatari come medaglie al valore: «Thatcher, Kissinger...». L’iniziativa «aveva l’obiettivo di includere l’area di Visegrad nella Nato e nell’Ue. Margaret ne era entusiasta. Abbiamo avuto una notevole influenza e raggiunto l’obiettivo». Oggi Orbán è un leader dell’Ue, ma la sgretola dall’interno; per O’Sullivan, «è l’Europa delle nazioni». L’Ungheria è nella Nato, ma il premier continua a far da sponda a Putin anche sul pagamento del gas in rubli, e l’Ucraina lo inquadra come «atto ostile». Dai due think tank budapestini orbaniani passa l’entourage della destra estrema più morbida con Putin: al Mathias Corvinus Collegium (Mcc) c’era fino a poco tempo fa Erik Tegnér, figura della destra identitaria, braccio destro di Zemmour. Poi è andato al seguito delle truppe russe a filmare per il suo canale Livre noir. All’MCC ha passato la notte elettorale di domenica Nicolas Bay, passato da Le Pen a Zemmour; qui si è fatto i selfie con Mariann Őry, filorussa. O’Sullivan è il ponte di Orbán con Regno Unito e Usa, ma di quale ispirazione culturale lo chiariscono gli eventi dell’istituto: il 13 aprile ospite della serata è Rod Dreher, la destra religiosa dell’American Conservative.

Soldi e fedeltà

Quando il premier ungherese parla di spese – e di offensiva – culturali, il caso dei think tank spiega bene cosa intenda. L’Mcc esiste da molti anni, ma nel frattempo si è esteso: presidia anche le zone rurali del paese, quelle dove Fidesz è più forte che mai. E anche il bilancio si espande: tecnicamente è un ente privato, ma il presidente, Balázs Orbán, è uno degli ideologi di Fidesz; e dal governo arrivano molte «spese culturali», tra le più recenti c’è un assegno da oltre un miliardo e mezzo di euro. Anche il Danube Institute è «spesa per la cultura», realizzata attraverso un meccanismo a matrioska. I soldi di partito e governo – nell’Ungheria di oggi le due cose sono assimilabili – arrivano tramite una «fondazione madre», la Batthyány. Esiste dal 1991, prima che Orbán arrivasse al governo; ma lui l’ha fagocitata, e ha iniziato dal 2010, che è anche l’anno in cui inizia la sua deriva autoritaria. Il governo finanzia la fondazione, e in cambio ottiene fedeltà; nel 2019 è costata al ministero almeno undici milioni. O’Sullivan si trasferisce a Budapest sapendo che l’istituto sarà sotto l’ombrello, anche finanziario, della fondazione madre. Come e perché ci arriva? «Nel 2013 mi invita György Granasztói, ex ambasciatore in Ue», un fidato di Orbán che è stato legato alla Batthyány. «Ero incuriosito dai conservatori ungheresi. Mi hanno chiesto di costruire un think tank conservatore, atlantista, liberista in economia. C’era questo gruppo di intellettuali conservatori della cerchia del premier che stava cercando di favorire lo sviluppo di un ambiente intellettuale simpatetico». Viktor Orbán, l’ex liberale del 1989, si forma in una società dove «mentre in occidente è la società civile a creare il quadro istituzionale, in quello orientale in assenza di una società indipendente e strutturala è lo stato a creare le istituzioni della società civile attraverso i suoi apparati», come spiega bene lo storico Stefano Bottoni. Ma Orbán riconosce l’importanza di queste organizzazioni, sin dalla sua tesi di laurea del 1987, titolata “Movimenti di auto-organizzazione sociale nei sistemi politici”. Il premier, da studente, è suggestionato dal caso polacco, dove movimenti come quello sindacale Solidarnosc portano alla caduta del regime. Qualche decennio dopo, il premier ungherese è ancora consapevole dell’importanza delle organizzazioni, tantopiù culturali. Ma le foraggia con uno scopo, e cioè l’«offensiva» della «democrazia illiberale».

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