Un allenatore all’ultima spiaggia, bisognoso di portare a casa un risultato positivo. Altrimenti il passo indietro diventa inevitabile dopo una serie di pesanti sconfitte. Una striscia impressionante, scorrendo i voti dalle precedenti Europee fino alle regionali in Abruzzo.

La metafora aderisce alla perfezione alla figura di un grande appassionato di calcio come Matteo Salvini, che alle Europee è chiamato a dare un segnale di vitalità. Pena la fine della sua leadership.

L’esonero, o comunque un “dimissionamento”. Il segretario della Lega ha fissato l’asticella per la salvezza. «Sono convinto che arriveremo quantomeno in doppia cifra», ha messo agli atti in una delle molteplici dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni. Insomma, bisogna aggrapparsi al 10 per cento per blindare la propria posizione.

Auto-ultimatum

Negli ambienti del suo partito, le parole sono parse una presa di coscienza, la prima da un po’ di tempo: una sorta di «auto-ultimatum». Se dovesse fallire la doppia cifra, potrebbe davvero valutare se accogliere il suggerimento che alcuni compagni di viaggio sono pronti a formulare: lasciare la segreteria leghista a qualche altra figura, conservando per sé gli incarichi governativi di vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Restando una sorta di padre nobile.

Insomma, al di sotto della soglia indicata, Salvini valuterà la fine del suo decennale ciclo al comando della Lega, plasmata a propria immagine e somiglianza, pur sempre con il suo stile. Lascerebbe con un copione già scritto: «Gli impegni di governo sono tanti ed è difficile dedicarsi anima e corpo alla Lega».

Pretendere l’ammissione di una sconfitta sarebbe davvero troppo.Ma l’esito dello scontro interno è tutto da verificare, nonostante i dirigenti auspichino un’exit strategy ordinata. Salvini non è il tipo da passare lo scettro a chi non gli è stato al fianco fino all’ultimo metro. Per questo potrebbe puntare su un profilo come Andrea Crippa, più salviniano di Salvini.

Un erede perfettamente allineato, che si è mosso sempre a tutela del suo mentore. Con cui condivide uno stile di comunicazione irruento, sopra le righe. Il deputato non è tipo da fargli sgarbi: potrebbe accettare solo con un’investitura dall’alto. C’è, però, un grande fermento dei colonnelli, dal presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, al capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, entrambi più attivi del solito. Sono gli unici due che hanno i galloni del potenziale segretario leghista, perché il Doge veneto, Luca Zaia, e il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non hanno l’indole del leader nazionale.

Al primo piace amministrare la sua regione, ci resterebbe a vita, il secondo è già gravato dal peso del Mef. Mentre è bloccato in una casella istituzionale il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, che ha forgiato un’immagine molto più moderata rispetto al passato, quando era il campione dell’ultradestra veronese. I tempi sono cambiati. Fatto sta che la successione non sarebbe affatto scontata. Anzi.

Battaglia finale

In ogni caso, sbaglia chi pensa a un leader arrendevole rispetto a un destino ineluttabile. «Non considero le ipotesi negative», è la posizione di chi lo interpella, lasciando intendere che - a risultato delle Europee -acquisito si immagina sempre al timone del partito. Al 10 per cento ci crede davvero così da zittire gli avversari esterni e interni. Anche per questo ha modulato l’altezza dell’asticella: qualche settimana fa, profetizzava il sorpasso al Movimento 5 stelle. Un azzardo di comunicazione.

«Superare il M5s vuol dire raddoppiare i voti in tre mesi. Io sono ottimista per natura, ma non così ottimista», ha infatti ammesso Salvini prendendo atto di un punto di partenza abbastanza basso rispetto al partito dell’ex alleato Giuseppe Conte. Insomma, ha innalzato il livello di aspettative – il 10 per cento – ma senza forzare, come gli capita spesso.

Nonostante i malumori intorno, il vicepremier ha accolto con favore il risultato in Abruzzo: il 7,5 per cento è molto al di sotto del 10 per cento promesso anche in quel caso. Ma il leader leghista lo considera un trampolino di lancio, puntando su un recupero di voti al Nord. Impresa tutt’altro che agevole per due ragioni: la concorrenza degli alleati Fratelli d’Italia e Forza Italia che puntano a parlare a quei mondi imprenditoriali settentrionali che si sentono traditi dalla Lega e la fioritura di progetti alternativi, territoriali, che possono sfilare consensi.

Uno di questi è la lista Libertà di Cateno De Luca che ha arruolato un esponente di spicco del vecchio Carroccio, Roberto Castelli, con la benedizione silenziosa di Umberto Bossi, pronto a scatenare la guerra in nome del vecchio brand padano.Ma la vera linea del Piave di Salvini è la conservazione del secondo posto nella coalizione, davanti a Forza Italia: il sorpasso, anche di uno zero virgola, sarebbe il tonfo definitivo. Impossibile nascondere il fallimento.

In questa ottica rientra l’aumento della tensione nella coalizione con scambi di dispetti.Al Nord il partito di Antonio Tajani candiderà, salvo ripensamenti last minute, Marco Reguzzoni, ex golden boy del leghismo bossiano e nemico giurato di Salvini, mentre al Sud la Lega si è presa Aldo Patriciello, signore delle preferenze in Molise e con una carriera politica legata a FI. Ma non è solo questione di nomi da mettere in lista, di mezzo c’è la linea politica.

Salvini cannoneggia a mezzo stampa su Ursula von der Leyen per colpire i popolari europei, di cui i forzisti sono i rappresentanti italiani. Ed è così che andranno i prossimi mesi di campagna elettorale. Il leader della Lega vuole giocare la partita con il suo schema preferito: all’attacco. Al prezzo di rischiare infilate in contropiede, come accaduto sulle affermazioni spericolate per il voto in Russia.

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