La speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha dato l’ultimatum a Donald Trump: se non si dimetterà «immediatiamente e volontariamente», ha scritto in una lettera ai deputati, il Congresso procederà a istruire la procedure d’impeachment. Prima di inviare la lettera, Pelosi ha parlato anche con il capo delle forze armate, il generale Mark Milley, per «impedire a un presidente instabile di iniziare azioni militari e accedere ai codici nucleari». La manovra della speaker è arrivata nel momento in cui alcuni rappresentanti repubblicani hanno segnalato una loro eventuale disponibilità a sostenere l’operazione per disarcionare il presidente che ha aizzato l’assedio del Capitol Hill. Intanto, il presidente uscente cuce di malavoglia una toppa, non rinunciando a mentire sul suo operato e a strizzare l’occhio ai milioni di americani che hanno creduto alle sue accuse infondate sulle frodi elettorali.

Trenta ore dopo l’assalto a Capitol Hill che è costato la vita a cinque persone e all’America intera un doloroso esame di coscienza, Trump si è deciso a prendere le distanze dai rivoltosi e ad ammettere che dal 20 gennaio gli Stati Uniti saranno governati da una nuova amministrazione. Lo ha fatto nel suo stile: con un video registrato e diffuso via Twitter, dopo che il suo account, sospeso per 12 ore, è stato ripristinato (Facebook lo ha invece sospeso a tempo indeterminato). Nel suo breve e pacato discorso, Trump ha esordito con una menzogna, dicendo di aver immediatamente ordinato l’intervento della guardia nazionale per contenere il delirio dei suoi sostenitori la sera del 6 gennaio, cosa che invece non ha fatto. Anzi, diversi membri del Congresso si sono rivolti al vicepresidente, Mike Pence, per esortarlo a prendere in mano la situazione e chiedere al Pentagono di intervenire.

Niente inaugurazione

Per quanto abbia espresso il suo impegno nell’assicurare un passaggio di consegne pacifico, Trump non ha neppure nominato Joe Biden. Anzi, ieri ha annunciato, con un messaggio laconico, che non parteciperà alla cerimonia di inaugurazione del suo successore. I giorni che ci separano da quel momento sono appena undici, ma in molti a Washington sono convinti che sia un tempo fin troppo lungo. Il ricorso al 25esimo wemendamento della Costituzione, che permette la destituzione del presidente con il consenso della maggioranza dell’esecutivo, è «altamente improbabile», ha detto Pence, e la scarsa percorribilità di quella via ha convinto i democratici ad accelerare sull’impeachment. Tuttavia, nessuna delle possibilità sembra facilmente realizzabile, viste le tempistiche. Se anche Pence riuscisse a mettere insieme la maggioranza del gabinetto, Trump non lo accetterebbe di buon grado e probabilmente innescherebbe azioni di vendetta che potrebbero essere ancora più nocive per il paese. Per quanto riguarda l’impeachment - per il quale i democratici hanno detto che potrebbe essere indetto un voto già la prossima settimana - i tempi per concludere il processo sarebbero più lunghi e ci vorrebbero almeno 18 senatori repubblicani pronti a votare a favore. E questo apre una questione decisamente più rilevante per futuro politico dell’America. Da che parte sta e starà il partito repubblicano?

Fino ad ora, negli ultimi quattro anni, una buona fetta del partito ha cercato di stare in equilibrio sul filo, prendendo le distanze da Trump come personalità, ma di fatto valorizzando molti aspetti del trumpismo, soprattutto quelli che hanno conquistato il voto di una classe lavoratrice che si sente sempre più minacciata e che è il nuovo bacino elettorale a cui sa di dover puntare. Tuttavia, per come si è presentata una fetta di questo elettorato a Capitol Hill - un’America disperata e che non ha nulla da perdere al punto da indossare corna da vichingo e imbracciare le armi contro i simboli della democrazia - qualsiasi manifestazione di sostegno a Trump risulta sempre meno difendibile e ascrivibile ad un partito che presume di operare dentro un sistema democratico. Nella propria ridefinizione politica, il Grand Old Party si trova a dover affrontare una crisi identitaria di proporzioni difficilmente contenibili, tra teorie della cospirazione e Trump che - come espresso anche nel suo ultimo discorso registrato e diffuso su Twitter - non sembra assolutamente intenzionato ad abbandonare la politica.

I dimissionari

Il partito dovrà tenere conto dei circa 150 membri del Congresso (soprattutto rappresentanti alla Camera) che hanno comunque espresso la propria obiezione sui risultati elettorali, così come dei numerosi membri del gabinetto dell’amministrazione uscente, che dopo anni di fedeltà a Trump, hanno pensato di salvare la propria reputazione lasciando l’incarico a ridosso della fine. È il caso, per fare due esempi fra i membri del governo, della segretaria dell’istruzione Betsy DeVos e della segretaria dei Trasporti, Elaine Chao, quest’ultima moglie del leader uscente della (non più) maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, anche lui un fedelissimo di Trump che negli ultimi giorni ha preso le distanze. Chi ha espresso il volere di andarsene, ma probabilmente resterà in carica fino all’ultimo, è il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien. Il suo vice ha già abbandonato la nave e lasciare una simile posizione vacante in un momento simile sarebbe forse troppo rischioso.

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