È ancora notte quando il reverendo predicatore Raphael Warnock, diventato primo senatore nero nella storia dello stato della Georgia, posta un breve video sulla sua pagina Facebook, ringraziando per il voto e assicurando che a Washington si batterà per tutti i georgiani; ma poi ci tiene a parlare della mano di sua madre: «È la mano di una donna di ottantadue anni, che ha lavorato per tutta la vita nei campi a raccogliere cotone e tabacco che non erano per lei; ha avuto dodici figli, di cui l’ultimo sono io, l’unico che è andato all’università. E stamattina quella mano ha messo la croce sulla scheda elettorale per farmi diventare senatore degli Stati Uniti. Come è stato possibile?» Warnock qui fa una pausa, un gran sorriso da predicatore consumato: «Perché...questa è l’America».

Democratic Senate candidate Raphael Warnock elbow bumps with President-elect Joe Biden during a campaign rally in Atlanta, Monday, Jan. 4, 2021, as Biden campaigns for Senate candidates Warnock and Jon Ossoff. (AP Photo/Carolyn Kaster)

Si profilava una giornata storica, o come si dice adesso, epocale; a Warnock si sarebbe aggiunto il giovanissimo Jon Ossoff e i due, fino a ieri improbabili nuovi senatori, avrebbero impresso tutta un’altra velocità alla futura amministrazione democratica. E tutto, senza violenza. Sia Ossoff che Warnock avevano fatto una campagna elettorale su omnia vincit amor, sull’impegno, sui buoni sentimenti. Warnock, dipinto dai repubblicani come un terrorista comunista, aveva addirittura prodotto un video pubblicitario in cui lo si vede portare a spasso un cucciolo di Beagle, (ovvero Snoopy, il cane del bambino bianco Charlie Brown), che gli lecca il viso, mentre lui raccoglie la sua popò, la mette nell’apposito sacchetto e la deposita nell’apposito bidone lungo i viali alberati di un quartiere residenziale. That’s America.

Primo pomeriggio, Washington. Convocati, organizzati e aizzati dal presidente Trump, le sue turbe di cospirazionisti sono entrate, incredibilmente, rompendo i vetri e scalando i muri, non fermati da nessuna polizia, nel più sacro edificio della democrazia del mondo, il Campidoglio che ospita il Senato e la Camera dei rappresentanti. Le televisioni seguono in diretta, tutto il mondo guarda, con sgomento. Is this America?

La bandiera della vergogna

I dimostranti ci staranno quattro ore, portando e usando – in tutta tranquillità – armi e ordigni esplosivi. Con grande presenza di spirito, quattro assistenti parlamentari mettono al sicuro i certificati elettorali che avrebbero potuto andare distrutti. I dimostranti imparano presto la strada: entrano e sfasciano gli uffici di Nancy Pelosi, si siedono sullo scranno di Mike Pence, costringono deputati e senatori a inginocchiarsi sotto i banchi. Si sentono colpi di arma da fuoco, a fine giornata si conteranno quattro morti, ma l’immagine che forse colpisce più di tutti è quella di un manifestante, molto tranquillo (tutti appaiono molto tranquilli nei filmati, non si coprono il volto, anzi si fanno selfie) che cammina per gli uffici di presidenza del Senato con una grande bandiera ricamata dei Confederati: mai il razzismo sudista aveva avuto maggiore vittoria. È il segno brutale – non avrete mai la libertà! – della giornata che era cominciata con la vittoria di Warnock in Georgia, quella bandiera che la vecchia madre di Warnock aveva visto per tutta la vita come il simbolo dell’ingiustizia e dello schiavismo.

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Nel suo comizio della mattina Trump aveva dedicato solo poche sprezzanti parole alla vittoria dei democratici in Georgia e aveva promesso ai suoi che le elezioni sarebbero state revocate e che alle nuove elezioni non avrebbe permesso il voto di gente come Warnock. Sarebbe stato “disenfranchised”, parola terribile ma che Trump ha riportato di moda. Quella bandiera che girava mollemente per gli uffici del Senato era dunque la futura America.

Sincronizziamo gli orologi

In una giornata di colpo di stato, dove si vince o si perde sul filo dei minuti, il tic toc è stato importantissimo.

Mattina, anche se non è ancora ufficiale, la notizia è chiara. Con la vittoria in Georgia, i democratici hanno conquistato il Senato. Mitch McConnell, il potente leader repubblicano sa che dovrà lasciare il suo posto a Chuck Schumer, democratico. Senatori e deputati convergono per la giornata, cerimoniale, della promulgazione di Joe Biden a presidente. Trump ha chiesto al suo vice, Mike Pence, di sospenderla e di accettare la proposta di 11 senatori, guidati dal texano Ted Cruz, di formare una commissione d’inchiesta.

I sostenitori di Trump iniziano a radunarsi all’imbocco di Pennsylvania Avenue, dove è già stato montato il palco che ospiterà il 20 gennaio l’inaugurazione di Biden.

Alle 11 Mike Pence dichiara, in due righe, che non è compito o prerogativa del presidente del Senato cambiare i risultati delle elezioni, che appartengono al popolo.

Vice President Mike Pence listens after reading the final certification of Electoral College votes cast in November's presidential election during a joint session of Congress after working through the night, at the Capitol in Washington, Thursday, Jan. 7, 2021. Violent protesters loyal to President Donald Trump stormed the Capitol Wednesday, disrupting the process. (AP Photo/J. Scott Applewhite, Pool)

Subito dopo parla Mitch McConnell. È pallidissimo e visibilmente teso. Conferma che le elezioni sono state valide ed è profondamente lesivo della democrazia il tentativo di Trump di ribaltarle.

Dopo di lui parla il senatore del Texas Ted Cruz, la quinta colonna dentro il Senato. Con tono mellifluo, dice: siccome i sondaggi dicono che il 39 per cento degli americani è convinto che le elezioni siano state “aggiustate”, facciamo una bella commissione d’inchiesta – dieci giorni al massimo, eh! – e vediamo di chiarire i punti oscuri. La cosa, ovviamente, non sta in piedi, ma serve per perdere tempo, per creare confusione.

Alle 12, a un chilometro di distanza Trump comincia a parlare ai suoi sostenitori. Aveva cominciato a convocarli dal 19 dicembre con un tweet che chiaramente era passato inosservato all’Fbi. «Come on the 6th. It will be BIG. It will be wild». E infatti sono venuti, da ogni parte d’America, sfidando il rischio di contagio – ma così alto come oggi in America viaggiando su pullman affollati.

A person wearing a Trump mask uses a mobile phone during a protest, Wednesday, Jan. 6, 2021, at the Capitol in Olympia, Wash., against the counting of electoral votes in Washington, DC, affirming President-elect Joe Biden's victory. Several hundred people supporting President Donald Trump rallied at the Capitol Wednesday. (AP Photo/Ted S. Warren)

Sono i famosi Proud Boys (quelli a cui aveva detto, in campagna elettorale, quando si erano resi protagonisti di violenze: «Stand back and stand by»), i suprematisti bianchi, i seguaci di QAnon, gli evangelici più caotici; la famosa “base sociale” che una marea di politologi (e quanti ce ne sono anche in Italia, eh. «Attenti», dicono, Trump non è finito, ha preso 74 milioni di voti) attribuisce al tycoon; la famosa classe operaia bianca che non si riconosce più nei liberal radical chic, immorali e pedofili democratici che hanno riempito l’America (e l’Italia, di converso: Steve Bannon fino all’anno scorso era di casa al Viminale) è qui, pugnace e speranzosa, nelle sue avanguardie pronte a dare l’assalto al palazzo d’inverno.

Trump li aizza per 70 minuti, un monologo da studiare all’Actors Studio. Gli racconta quanto gli vuole bene, ma soprattutto tutte le ingiustizie che ha subito, quanti voti gli hanno rubato in Nevada, per non dire del Wisconsin, per non parlare della Pennsylvania. E se vi raccontassi di quello che mi hanno fatto in Georgia. Vabbè, ve la racconto. E in Arizona, adesso vi dico dell’Arizona, da non crederci. Roba da terzo mondo! A noi, all’America che è prima nel mondo! Sapete che ridono di noi?

Protesters square off with law enforcement officers on the front porch of the Governor\'s Mansion after a group of people got through a perimeter fence, Wednesday, Jan. 6, 2021, at the Capitol in Olympia, Wash., following a protest against the counting of electoral votes in Washington, DC, affirming President-elect Joe Biden\'s victory. The area was eventually cleared by police. (AP Photo/Ted S. Warren)

L’uditorio un po’ si annoia, ma lui prosegue con le sue ossessioni, i suoi incubi, senza fermarsi, senza neanche bere un sorso d’acqua. E poi alla fine, le promesse: nuove elezioni, con un altro sistema elettorale e ritorno al potere, della grande America che esisteva fino a ieri. La frase topica, quella che gli potrebbe costare l’incriminazione per incitamento alla sedizione: “A adesso marciamo lungo Pennsylvania Avenue, e voi, Forze dell’ordine unitevi a noi!, e andiamo al Campidoglio a dare una mano ai senatori - non ai coraggiosi che non ne hanno bisogno (si riferisce agli 11 di Ted Cruz), ma a quelli più deboli, per fargli ritrovare l’orgoglio e un po’ di spina dorsale” (si riferisce a Pence, il suo vice).

E il corteo parte, agli ordini del Capo. Ma il Capo se la fila e torna alla Casa Bianca, e si mette davanti alla televisione, come Nerone. C’è qualcuno con lui? Qualche addetto alla sicurezza nazionale, al Pentagono? Non si sa. Ma se lui guarda la televisione, sa che tutti gli chiedono qualcosa: un semplice tweet, presidente, dica ai suoi di fermarsi prima che sia troppo tardi. Ma lui non lo fa. Per due ore. (Anzi, una fonte giornalistica riferisce che il presidente era in uno stato di euforia: we did it! we didi it!).

Alle 18 compare Joe Biden che definisce l’accaduto un atto di sedizione, aggiunge che l’America si sta coprendo di vergogna di fronte al mondo e ingiunge a Trump di ordinare ai suoi il ritiro. Poco dopo lo costringono a un brevissimo video in cui chiede ai suoi di andare a casa in pace: “we love you, you are special”. Solo dopo le 18 accetta di far intervenire la Guardia Nazionale. I dimostranti cominciano ad uscire, rilassati, sorridenti, senza che nessuno gli chieda neanche un nome, un indirizzo, un numero di telefono.

Ashli Babbit, la martire

A tarda sera si avranno notizie di quella che sembra essere la prima martire della religione idiotica di QAnon. Si chiama Ashli Babbitt, 35 anni, militante del culto (dicono che c’è una setta di pedofili democratici ha conquistato il mondo, Donald è l’ultima trincea); Trump li appoggia; ha prestato servizio nell’aviazione americana, ha due figli e un marito.

 E’ partita da San Diego California, peraltro messa in ginocchio dal virus, per andare a “combattere la battaglia finale di Washington per la salvezza dell’America”. Nei corridoi del Senato è stata uccisa da un colpo di pistola al petto sparato da un agente della sicurezza in borghese, mentre stava scavalcando una barricata di mobilia eretta a protezione di un ufficio riservato. Morte in prima linea, insomma. Conscia di quello che stava facendo; e lo ha fatto per Trump che non si è nemmeno accorto di lei.

God bless America, Ashli.

People shelter in the House gallery as protesters try to break into the House Chamber at the U.S. Capitol on Wednesday, Jan. 6, 2021, in Washington. (AP Photo/Andrew Harnik)

Una cosa molto europea

Ero come tutti davanti alla Cnn. I giornalisti erano davvero spaventati e orripilati. Non sapevano come definire quello che stava succedendo: “a terrorist act”?, “the rule of the mob”, “anarchy”, “caos”, “sedition”, “coup”?; ma sapevano che era una cosa che non si era mai vista prima.

L’America non ha tradizioni di colpi di stato, i padri fondatori erano così ossessionati dall’idea che un potere monarchico potesse prendere possesso della loro democrazia che infilarono una serie di paletti, pesi, contrappesi che avrebbero dovuto renderlo impossibile. È stato più un paese di omicidi politici e di guerre civili. Ci furono, in realtà, dei tentativi, soprattutto dei militari (i generali Patton e MacArthur, per esempio, che volevano i pieni poteri), ma non ebbero mai seguito, perché in genere sventati da altri militari. Questo mostra la difficoltà di spiegare quello che è accaduto. C’era un piano? La polizia non è intervenuta perché era d’accordo? Trump contava di creare disordini diffusi per poter chiedere poi la legge marziale?

Per noi europei, invece il colpo di stato è un elemento del paesaggio.

L’attacco al Senato di Catilina, il 18 brumaio di Napoleone Bonaparte, le defenestrazioni di Praga, l’assalto dei bolscevichi al palazzo d’inverno (dispiace per i comunisti che non lo considerano tale, ma fu una specie di operetta), l’aula sorda e grigia con i manipoli, il Reichstag e prima la birreria di Monaco, Francisco Franco e la sua Legione, il colonnello Tejero, i dieci colpi ad Ankara, i colonnelli in Grecia, il golpe Borghese, e chissà quanti altri me ne dimentico. Più ci sono i latino-americani.

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Siamo più scafati. E quindi anche questo possiamo provare a catalogarlo come “colpo di stato fallito”, che è in genere, almeno letterariamente, molto più interessante: c’è sempre qualcuno che tradisce, all’ultimo momento. E poi ci sono le vendette, che già nell’antica Roma erano terribili.

Non c’è dubbio che Trump ha fallito. Perché è pazzo, perché è un bambino cattivo e furioso, perché non vive nella realtà, ma in un immaginario mondo di ossessioni, paure, perché vede con terrore il momento in cui dovrà pagare i debiti. È anche un vigliacco, non da oggi. Tutte cose che lasciano prevedere per lui una brutta fine. Ieri dalla Casa Bianca si sono dimessi in massa gli ultimi rimasti perché prevedono che sarà rimosso dall’emendamento 25, o indiziato di reati terribili. Ultimi topi che scappano. E la sua base sociale? I famosi 76 milioni? Forse semplicemente si stuferanno di lui; lui si è da tempo stufato di loro.

Finirà male, questa storia, in ogni caso. Trump sarà ricordato solo come il grande corruttore di una democrazia, che, con sé stesso, ha distrutto il suo partito.

Non c’è riuscito, ma ha fatto vedere che “it can happen here” e che “that’s America”, da ieri, può voler dire tante cose. Belle e brutte. Ma non sarà più, comunque l’America che avevamo imparato a conoscere.

“Siamo tutti americani”, abbiamo detto dopo l’11 settembre. Dovremmo dirlo di nuovo. Perché, in fin dei conti è davvero una storia nostra, anche se non tutti abbiamo avuto una madre che raccoglieva tabacco e cotone in Georgia.

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