Stavolta no: a differenza di altre stragi di matrice terrorista, non ci sentiamo parte della comunità degli offesi. Le centinaia di morti e feriti al Crocus City Hall non superano la soglia emotiva della nostra commozione. Non scatta in noi quella comoda coazione alla solidarietà che nelle passate tragedie, per quel poco che è durato, ci ha fatto dire che i morti era come fossero i nostri – anzi, che era come fossimo morti noi stessi. Ma questo non deve stupirci: siamo in guerra. E la guerra implica la diffusione capillare di un’istintiva inimicizia, quella che ci fa stilare indicibili classificazioni tra i morti: quelli nostri e quelli loro.

Nelle nostre latitudini, in effetti, la prima reazione non è stata la compartecipazione al dolore, ma la paura. Il nostro timore principale era che a macchiarsi dell’atrocità fosse stato il governo ucraino e che una mossa tanto azzardata potesse provocare un’improvvisa espansione militare e territoriale del conflitto in corso. La rivendicazione dell’Isis-K ci ha rinfrancati come fosse la buona novella.

Di qui, ha fatto seguito la guerra mediatica alla propaganda russa per arginare l’attitudine manipolativa di Putin e impedire lo stravolgimento ideologico della tragedia moscovita. Nel frattanto, un compiaciuto ma inconfessabile senso di rivalsa rispetto al recente plebiscito russo ci attraversava come a dire: «L’autocrate non sa mantenere neppure la promessa di maggiore sicurezza». Tutto questo ha attutito l’impatto emotivo della strage di venerdì scorso sino a inibire l’innata compulsione al lutto collettivo.

Beninteso: non intendo fare la morale al nostro apparato lacrimale inceppato. Non intendo dire che dovremmo sentirci parte dello spirito di cordoglio che tutto tocca quando si verificano tragedie di tale entità in paesi che sentiamo vicini. M’interessa piuttosto individuare un processo molto comune quando in politica si tratta di ridefinire chi è amico e chi è nemico per avvalorare l’idea che si sia in guerra.

Secondo un diffusissimo credo di psicologia politica, una comunità, perché sia compatta contro una minaccia esterna, deve sapere a chi sentirsi vicina e da chi prendere le distanze. E questa distinzione basilare tra amici e nemici, perché sia pienamente efficace, dev’essere istintiva, funzionare cioè senza la mediazione di un ragionamento consapevole. In altre parole, dev’esser tale che, se muoiono membri della comunità politica a noi ostile, detta tragedia non generi in noi sentimenti di immediata compassione. L’inimicizia deve arrestare il transito degli affetti. Al più può ammettere equilibrate ma studiatamente gelide manifestazioni di solidarietà.

L’inverno emotivo che in Europa e Usa ha accolto la strage al Crocus City Hall è dunque il sintomo di un processo strisciante di riconfigurazione dello scacchiere delle amicizie e delle inimicizie. In seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, si volle convincere le popolazioni dei paesi occidentali che c’era un nuovo nemico intenzionato a porre fine alla nostra civiltà. A tal fine, furono esposte alla massiccia diffusione dell’idea secondo cui la mera esistenza dell’islam politico organizzato costituisse una minaccia alla loro vita. Dal febbraio 2022, la partita è cambiata. Il nemico esistenziale, vale a dire quello la cui mera esistenza è di per sé una minaccia, è il rinnovato asse tra Russia e Cina.

L’idea che oggi va montando è che la Russia ci stia facendo guerra per fare strame delle più preziose acquisizioni della tradizione liberale, come le libertà individuali e i valori del pluralismo. Da parte russa, d’altro canto, pare che questa comoda contrapposizione piaccia, tale e tanto è l’impegno a soffocare il dissenso con la censura violenta e le minoranze con la prigione e i lavori forzati, mentre Putin promuove una piattaforma di valori che scalda gli animi reazionari dei controrivoluzionari nostrani (o che tali vogliono farsi passare per tornaconto elettorale).

Ecco: la recente inibizione al lutto sembra dimostrare che la ricomposizione del quadro delle inimicizie stia funzionando. Chissà che qualcuno, in cuor suo, per un fugace e denegato istante, non abbia considerato i terroristi del Crocus City Hall come circostanziali alleati.

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