«Ero con mio cugino quando è successo. Sono sceso dalla macchina e ho messo il piede su una mina. È così che ho perso la gamba. Da quel giorno nulla è stato più come prima».

Farad Shabib racconta la sua storia con poche, semplici parole, mentre solleva il bordo dei pantaloni per far vedere la protesi attaccata al suo ginocchio sinistro. Farad è uno delle migliaia di curdi iracheni che hanno perso un arto a causa degli ordigni che infestano dagli anni Ottanta il territorio dell’Iraq e in particolare della regione autonoma curda, nel nord del paese. «Anche mio padre è morto per una mina al confine con l’Iran e temo che tanti altri faranno la mia stessa fine in futuro».

Il pronostico di Farad è tristemente reale. Dieci mesi fa anche Kharim Murad, originario dell’Iran, ha perso una gamba mentre coltivava un terreno vicino alla zona di confine e adesso non sa cosa fare per mantenere sé stesso e i suoi due figli disabili. Oltre a dover reimparare a camminare con la nuova protesi, Kharim sta anche cercando di uscire dallo stato depressivo in cui è caduto dopo l’incidente, ma riuscirci non è semplice.

Il lavoro di Emergency

Sia Farad che Kharim sono pazienti del centro riabilitativo che Emergency ha aperto nel 1998 a Sulaymaniyah, la seconda città più grande del Kurdistan iracheno. Nei primi anni in cui il centro ha iniziato a funzionare l’Iraq era sotto embargo internazionale e la regione curda era sotto attacco da parte di Saddam Hussein. Nonostante le grandi difficoltà, Gino Strada e i suoi colleghi sono riusciti a trovare quello che serviva per aprire il centro.

«Le condizioni economiche al tempo erano davvero pessime. Molte persone andavano nelle montagne per prendere quello che potevano dalle postazioni militari abbandonate, o attraversavano il confine per riportare indietro del cibo. I bambini giocavano con le mine senza sapere cosa fossero. Ci sono state tantissime vittime in quegli anni», racconta Mustafa Hawar, coordinatore del programma Iraq.

Il compito primario del centro di Emergency è quello di fornire le protesi e un percorso di riabilitazione per i pazienti, ma l’impegno della Ong italiana si limita all’ambito medico. «La perdita di un arto pregiudica anche il rientro in società, per questo bisogna seguire un percorso circolare», spiega Faris Hama, coordinatore medico, mentre passa da una sala all’altra del centro fino a disegnare un cerchio immaginario che imita il percorso seguito dai pazienti. «Si inizia con la creazione della protesi, che viene realizzata qui da noi. Poi si passa alla fisioterapia, ma tutto questo non basta. Come fai a trovare lavoro se hai perso un arto o se sei diventato cieco?».

Le cooperative

Per cercare di trovare una soluzione al problema, Emergency ha deciso di fornire dei corsi di formazione professionale per permettere ai pazienti di imparare un lavoro compatibile con la loro disabilità.
Una volta ottenuto il diploma viene offerta assistenza economica e gestionale per aprire cooperative o piccole botteghe artigiane e renderle finanziariamente indipendenti entro tre anni.
«Per il progetto vengono selezionate le persone più motivate e che hanno subito più amputazioni. Abbiamo aperto più di 400 attività, 10 solo nell’ultimo anno», aggiunge Faris con orgoglio, mentre con un pennarello finisce di scrivere i vari passi che il paziente fa all’interno di quel cerchio immaginato tanti anni prima da Gino Strada.

Per molte persone, questa idea è stata una salvezza. Hunar Azam Ali è uno dei beneficiari del progetto di Emergency e da venti anni lavora come sarto nel villaggio di Zarayan, nei dintorni di Sulaymaniyah. Mentre racconta la sua storia mostra i vestiti che realizza, invitando a testare con mano la qualità della stoffa. Hunar, che in giovane età era un soldato, ha perso entrambe le gambe a 18 anni mentre era in missione al confine con l’Iran.
«Sono saltato su una Valmara, le mine prodotte in Italia. All’inizio è stato difficile, mi sentivo senza speranza, ma Emergency mi ha aiutato ad andare avanti e sono riuscito anche a mettere su famiglia», conclude Hunar sorridendo alla figlia piccola che si guarda timidamente in giro, i grandi occhi azzurri che spiccano sotto la frangetta nero corvino.

Poco lontano dalla sartoria di Hunar c’è un'altra attività finanziata sempre da Emergency: l’officina di Mohammed Abdullah Mohammed. Il posto è esattamente come ce lo si aspetta: uno stanzone un po’ polveroso pieno di pezzi di ferro e attrezzi vari, con una macchina per tagliare il metallo rumorosamente in funzione. Mohammed la spegne e solleva gli occhiali protettivi sulla fronte prima di iniziare a raccontare la sua storia.
Anche lui ha perso parte della gamba sinistra quando era molto giovane, a soli venti anni, mentre attraversava il confine tra Iran e Iraq per portare a casa quei beni essenziali che nel suo paese non era più possibile trovare a causa della guerra e degli embarghi.
«La vita da quel momento in poi è stata dura, ma sono riuscito a reinserirmi in società», spiega Mohammed, parlando con orgoglio della sua famiglia e stringendo la mano agli operatori di Emergency come ennesimo segno di ringraziamento.
«Spero che un giorno non ci siano più mine così le persone potranno muoversi liberamente. Non voglio che altri restino amputati come me. Non devono più esserci vittime», conclude serio Mohammed.

Le mine

Quello delle mine e degli ordigni rimasti sul terreno a seguito delle guerre e dei conflitti locali è un problema ancora molto pressante in Iraq e in particolare nella regione autonoma curda del nord. Qui ci sono ancora cinque milioni di mine secondo le stime più recenti e resta ancora molto, troppo lavoro da fare per bonificare l’intero territorio.
Il governo federale si era impegnato a liberare il paese entro il 2028, ma si tratta di una data decisamente ottimistica considerata anche la carenza di fondi con cui le Agenzie governative devono fare i conti. La recente guerra con l’Isis poi non ha fatto che peggiorare la situazione. Dal 2014 al 2017 lo Stato islamico è stato particolarmente attivo nella regione nord dell’Iraq e ha lasciato dietro di sé non solo morte e distruzione, ma anche migliaia di trappole esplosive pensate per uccidere i civili che avrebbero fatto ritorno alle loro case.

Per questo motivo in molti preferiscono restare nei campi per sfollati interni allestiti durante il dominio dell’Isis, andando ad aumentare il numero di cittadini costretti ad abbandonare le loro case e i loro terreni per sfuggire a una morte certa. Una scelta che ricorda quella fatta molti anni prima da Farid Karim Muhammed, che a 26 anni ha perso una gamba su una mina.

«L’incidente è successo in un pezzo di terra che avevo preso in affitto per coltivare. Ufficialmente quella zona era stata liberata dalle mine, ma ce n’era una nascosta sotto una pietra e io ci sono finito sopra», racconta mostrando la protesti. Farid si sente fortunato: l’ordigno era incastrato nel terreno, per cui l’esplosione ha strappato via solo una parte della gamba. «Adesso quell’area è veramente pulita, ma nessuno ha ancora il coraggio di tornarci».

Nonostante l’amputazione, Farid è riuscito a condurre una vita abbastanza normale grazie all’aiuto fornitogli da Emergency. Da sei anni gestisce una falegnameria di cui è evidentemente orgoglioso. Prima di raccontare la sua storia ci tiene a mostrare i mobili che sta finendo di realizzare su commissione e quelli che ha costruito recentemente, immortalati nella galleria del suo cellulare.
Una volta fuori dal laboratorio, Farid indica un punto in alto a destra. «Quella è casa mia», spiega il falegname, «e quelli che vedete sul balcone sono i miei uccellini. Ci tengo molto a loro».
Nell’aria in effetti risuona un cinguettio allegro che ben si intona con il sorriso di Farid. Un sorriso che nasconde tutto il dolore provato negli ultimi vent’anni ma che dimostra anche la voglio di andare avanti, di non lasciare che un’amputazione sia la cifra distintiva della sua intera vita.

© Riproduzione riservata