Quella sera, dopo cena, a casa di Beppe e Luma Cremagnani, che erano stati tra i primi sostenitori di Emergency, Gino Strada si lasciò un po’ andare. Spiegò per esempio che le quaranta sigarette che fumava al giorno stringevano sì le coronarie, ma se uno ci beveva sopra due bicchieri di scotch, si allargavano di nuovo, e quindi il suo lavoro in sala operatoria non ne pativa. Raccontò dove sbagliava la medicina di guerra americana: avevano la smania di operare i feriti di guerra troppo presto, senza toelette antibiotica, e quindi se li vedevano morire di sepsi. Gli ospedali di Emergency avevano adottato il metodo esattamente contrario: triage, toeletta antibiotica – dolorissima, ma necessaria – e solo infine l’intervento. E le loro statistiche erano migliori di quelle americane.

A quel tempo Gino Strada aveva fatto esperienza in mezzo mondo colpito dalle guerre, prima con la Croce rossa, e poi con quell’organizzazione “privata” che, con la moglie Teresa, aveva prima vagheggiato, poi visto crescere. La storia è nota: i due andarono al Maurizio Costanzo show e raccontarono che volevano far crescere un’organizzazione di volontari medici e infermieri per curare gratuitamente le vittime delle guerre. Lui raccontò, perché aveva ormai abbastanza esperienza, che cosa succede in una battaglia, in un bombardamento aereo, in un attentato. Come si squarcia la carne, come si muore, cosa resta dei mutilati: lo stigma sociale, il rifiuto delle loro famiglie di aiutarli, l’abbandono. Raccontò il livello di nequizia di chi progettava le armi, e alcune, per esempio, le fabbricava sotto forma di pappagalli verdi, così che disseminate nei campi, che so, in Afghanistan, dei bambini le raccoglievano e saltavano in aria. Ai tempi quelle mine le fabbricavano gli italiani – la Fiat, in particolare, l’Afghanistan era stato invaso dai sovietici – in nome della “democrazia socialista”, naturalmente – promettendo che le donne non avrebbero portato più il burqa. A quei tempi lady Diana, un po’ per sfuggire alla noia coniugale, un po’ perché era davvero una brava ragazza, andava in giro ad accarezzare mutilati e a gridare che tutto ciò era uno scandalo. A quei tempi, gli Stati Uniti finanziavano un certo sceicco saudita, Osama bin Laden, che combatteva contro l’Urss. Tempi strani, davvero. Beh, Maurizio Costanzo, ebbe la brillante idea di chiedere loro: cosa possiamo fare per aiutarvi? E loro dissero: dateci dei soldi su questo conto corrente. E la regìa fece passare, per parecchio tempo, il numero. Il giorno dopo i coniugi Strada scoprirono che il popolo italiano era buono e si fidava di loro, tanto da dargli un po’ dei loro risparmi.

La nascita di Emergency

Così era nata Emergency, la più importante start up italiana. Ripensandoci, non c’è nulla di paragonabile a quell’esperienza, né nell’industria, né nel commercio, né della politica. Emergency ha assunto centinaia di medici e infermieri, ha aperto decine di ospedali in zone di guerra, ha curato – gratis – decine di migliaia di feriti di guerra e il suo fondatore è stato invocato più volte come il salvatore di cui avrebbe bisogno l’Italia. L’altro ieri, i Cinque stelle lo volevano presidente della Repubblica; ieri il governo gli aveva chiesto di mettere, per favore, mano alla sanità in Calabria. Più volte, negli ultimi vent’anni, Gino Strada ed Emergency sono stati un nostro “ministero degli Esteri ombra”, ma anche sono stati accusati di “intelligenza con il nemico”, inteso come il terrorismo islamico: erano i primi vent’anni del XXI secolo, ricordate? Il grande nemico dell’umanità era il terrorismo islamico che divorava paesi e attaccava l’occidente. L’idea che ci fossero degli ospedali in zone di guerra in cui chiunque potesse chiedere aiuto ed essere curato – gratis – era considerato un tradimento. Eppure Gino Strada lo faceva. Perché?

Quella sera, a cena, Gino Strada lasciò cadere un aneddoto. Raccontò che all’inizio di settembre del 2001, Emergency aveva aperto già diversi ospedali in Afghanistan e che lui stesso era una specie di punto di riferimento per l’ambasciata italiana e per i giornalisti che si spingevano lassù. (Erano altri tempi, all’epoca c’erano giornalisti che andavano in luoghi strani, e giornali che li pagavano, addirittura!). E dunque, Gino Strada un giorno si trovò a una cena all’ambasciata italiana di Kabul e si parlava dell’uomo del momento, la speranza del paese che dopo il tragico ritiro sovietico, poteva essere in grado di contrastare l’avanzata islamista proveniente dal Pakistan: il comandante Massoud, il leone dal Panshir, su al nord, un signore della guerra amico dell’occidente, colto, elegante, raffinato, amato dal suo popolo: le librerie di Parigi esponevano la sua biografia. Gino Strada, come molti altri, aveva ottimi rapporti con lui.

«Lei torna al nord, dottor Strada?», chiese il funzionario dell’ambasciata. «Mi stavo chiedendo se potevamo approfittare di lei… Ci sono qui due giornalisti francesi che vogliono intervistare Massoud… magari lei li può accompagnare ed accreditare…».

Gino Strada, quella sera, non ci disse se non acconsentì a quel favore per presentimento, per sospetto, o forse solo perché aveva una macchina piccola. Ma quei due (finti) giornalisti comunque ce la fecero. Il 9 settembre 2001 il leone del Panshir si sedette di fronte a una telecamera per dare un’intervista. E la telecamera conteneva la bomba che lo uccise. Just in time. In quelle ore Mohamed Atta e i suoi stavano preparandosi per il check in sui voli American Airlines per l’apocalisse dell’11 settembre.

Curare tutti

Mi ricordo Gino Strada come tante cose insieme. Un milanese, anzi di Sesto San Giovanni, che è forse diverso. Un cattolico impegnato, uno studente di Medicina seguace di Mario Capanna e del suo marxismo leninismo veloce; un giovane cardiochirurgo dalla mano d’oro, specializzatosi a Stanford, a Pittsburgh, ma non amante della medicina capitalista. Un vero seguace del giuramento di Ippocrate, un vero apostolo. Un isolato, un solitario, un ostinato.

Considerava l’America simbolo delle guerre imperialiste e si considerava un testimone di quell’obbrobrio. Nella sinistra italiana nessuno l’ha mai veramente amato. La Cia lo sopportava a malapena. Ai tempi in cui Edward Luttwak era ospite d’onore delle nostre serate televisive Strada era il nemico numero uno ed era indicato come l’amico dei terroristi. Il Pd lo ha sempre tenuto a distanza, la nostra destra lo accusava di pacifismo e buonismo: “I pacifisti alla Gino Strada”. Strada considerava immorale che l’Italia fabbricasse armi e che le vendesse. Parlava poco, ma non nascondeva certo le sue idee: sono i fascisti che fanno le guerre, è il mondo che le soffre.

In tutti gli ospedali che ha fondato c’era un cartello: «Non si entra con armi». Curavano tutti. Ci fu un caso, il rapimento del giornalista Daniele Mastrogiacomo, in cui il suo ospedale in Afghanistan andò drammaticamente di mezzo. Ci furono molti altri casi, di cui non sappiamo ancora, in cui Gino Strada salvò vite. Costruì un ospedale in Sudan, sotto la protezione di uno dei peggiori regimi della Terra, per operare neonati affetti da patologie cardiache: è oggi l’unico centro del genere, serve mezza Africa, con aerei che portano i bambini da operare.

Declinò l’offerta di aprire ospedali nei territori occupati da Israele, perché trovò i dirigenti palestinesi un po’ troppo corrotti. Ha reinventato la medicina d’urgenza, l’organizzazione sanitaria in luoghi di guerra, con la rete sul territorio dei piccoli ambulatori essenziali, la chirurgia di guerra e la riabilitazione degli amputati, ha dato a semplici infermieri l’organizzazione e la gestione di grandi ospedali, che dovrebbero essere presi ad esempio da noi, specie dopo la pandemia.

È stato anche molto odiato, perché ha fatto vedere che: si può fare. Ma, dispiace dirlo, il suo insegnamento – prima di tutto, pratico – non ha fatto breccia in nessuna istituzione politica italiana.

Il futuro

Gino Strada – la sua Emergency – avrà un futuro? Nessuno può dirlo, ma il fatto che il dottor Strada sia morto alla vigilia del ventennale dell’11 settembre, alla vigilia della nuova entrata a Kabul dei talebani, che si immagina doppiamente spaventosa; il fatto che quanto aveva da dire il medico italiano sia stato sempre, pervicacemente considerato una specie di folklore marginale; il fatto che ora gli americani dicano solo: «Vediamo di salvare gli interpreti» o, peggio, «se vi serve qualcosa mandateci una mail», tutto ciò fa apparire Gino Strada in una luce diversa. Una sorta di viaggiatore bene intenzionato, un Marco Polo sessantottino, la persona cui davvero molti italiani hanno dato con piacere i loro soldi, un carismatico leader che ha convinto medici, infermieri, personale a lasciare i loro lavori per seguirlo nell’avventura, il più grande sostenitore della sanità pubblica e dei suoi principi. E una mano d’oro in sala operatoria. Ah, Gino! Se solo quella sera a Kabul avessi capito l’inganno dei due falsi giornalisti. Avresti cambiato la storia del mondo.

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