«Sono tre mesi che il governo regionale del Kurdistan non paga i salari. Sono tre mesi che non arrivano le pensioni. Le scuole sono rimaste chiuse a lungo e anche adesso che hanno riaperto gli insegnanti continuano a non ricevere lo stipendio».
Mentre Ali parla, il suo sguardo segue un gruppetto di bambini che giocano sull’altro lato della strada, poco lontano dalle madri che stendono sui fili di plastica di un verde ormai consunto i vestiti appena lavati, le maniche arrotolate fino al gomito.

Gli insegnanti non sono gli unici lavoratori pubblici a soffrire la mancanza di stipendi. Anche medici e infermieri non vedono la paga da mesi, con effetti negativi sul servizio sanitario offerto dal governo locale. «Un mio amico è morto di infarto», racconta ancora Ali con un misto di tristezza e rassegnazione. «È andato in ospedale, ma ha trovato un internista che non ha saputo fare una diagnosi corretta ed è morto così, per un infarto».

Un territorio diviso

Ali è uno dei tanti dipendenti pubblici della regione autonoma curda dell’Iraq, nota con la sigla di Krg e nata nel 2005 dopo la caduta di Saddam Hussein. Secondo l’analisi demografica condotta dal governo nel 2022, metà della popolazione è impiegata nel settore pubblico e solo il 26 percento delle donne lavoratrici ha un impiego nel privato. Un numero così alto di dipendenti statali non è un caso. L’accesso a questo tipo di lavoro è stato usato dalle due principali fazioni politiche per estendere la loro influenza e guadagnarsi il voto degli elettori.

Il Kurdistan iracheno è governato dal Partito democratico (o Pdk), ma la sua autorità si estende realmente solo in una parte della regione, mentre l’altra metà è sotto il controllo dell’Unione patriottica (o Puk). Due partiti a conduzione familiare in cui il potere passa da padre in figlio e con alleati internazionali molto diversi: il Pdk è vicino alla Turchia, mentre il Puk ha trovato il suo sponsor nell’Iran.

Per rendersi conto di questa spartizione del territorio, raggiunta dopo un lungo conflitto interno mai realmente conclusosi, basta guidare dalla capitale Erbil fino a Sulaymaniyah, seconda città più grande della regione.

Per percorrere i quasi 200 chilometri che separano le due città sono necessarie almeno tre ore di viaggio e una buona dose di pazienza: il tragitto è costellato di check-point militari sorvegliati a vista dalle gigantografie dei Barzani, leader del Pdk, e dei Talabani del Puk nel momento in cui ci si avvicina a Sulaymaniyah.

I volti severi dei leader curdi lasciano ogni tanto il posto a poster di dimensioni più ridotte ritraenti altri personaggi importanti dello scenario politico locale o soldati morti in uno dei tanti conflitti che hanno interessato la regione. Non ultimo quello contro l’Isis.

«I Barzani e i Talabani controllano tutto. Il Kurdistan è una terra ricca, ma i soldi finiscono nelle loro tasche e in quelle dei loro accoliti. A noi non resta nulla», racconta Karwan mentre con il suo taxi passa sotto l’ennesimo cartellone con il volto di qualche leader locale.

«Ho studiato legge all’università, ma trovare lavoro è impossibile. Non pagano nemmeno lo stipendio ai dipendenti pubblici. Faccio il tassista per sostenere la mia famiglia». Karwan, con i suoi quarant’anni, sente che il suo destino è già scritto. «Votare non serve, non cambia mai nulla. Solo le città continuano a trasformarsi. Si costruiscono sempre nuovi quartieri ma sono solo per i più ricchi. Vogliono trasformare tutto in una nuova Dubai, ma a noi che resta?».

La crisi economica

L’Iraq dipende quasi totalmente dalla produzione e l’esportazione di petrolio e da anni è in corso uno scontro legale tra Baghdad ed Erbil per la spartizione dei proventi di questo settore. A rendere ancora più difficile la situazione economica è l’inflazione: un dollaro vale 1.300 dinari e almeno 1.700 sul mercato nero. Il paese poi produce ben poco. Le confezioni di frutta secca che contornano il bancone di tutti i minimarket sono tutti importati dal Libano, mentre sugli scaffali si trovano prodotti con le scritte in turco. 

Nonostante una grande disparità nella distribuzione delle ricchezze, l’Iraq è considerato un paese in via di sviluppo dalla comunità internazionale e questa denominazione limita anche l’accesso ai fondi delle ong ancora attive sul terreno e tuttora indispensabili per alleviare i problemi che maggiormente affliggono la popolazione.

Come quello dei rifugiati interni. Secondo statistiche ufficiali del 2022, nella regione curda ci sono 650mila sfollati interni, molti dei quali hanno lasciato le loro abitazioni dal 2014 al 2017 per sfuggire all’Isis senza mai fare ritorno.
Molte delle aree liberate infatti non sono ancora abitabili a causa degli ordigni esplosivi lasciati dai miliziani nelle case e negli edifici dopo la loro ritirata.

«Nello stesso posto puoi trovare più ordigni con cariche molto pesanti. È praticamente impossibile sopravvivere. Basta mettere un piede in casa o sollevare una pentola per far scattare l’innesco», spiega Simon Woodbridge della ong Mag mentre supervisiona le operazioni di distruzione di una cinquantina tra mine e mortai trovate in diverse aree del Kurdistan.

«Nelle case o tra le macerie dei palazzi puoi trovare anche bombe inesplose e altre minacce per la vita di chi fa ritorno al proprio paese». Per alcuni, quindi, la vita nei campi profughi è più sicura di quella che troverebbe nella casa che ha dovuto lasciarsi alle spalle. «Abbiamo lavorato molto per bonificare le aree riempiete di trappole dall’Isis, ma c’è ancora tanto da fare. L’Iraq resta tra i paesi più minati al mondo».

I bombardamenti della Turchia

Ma la minaccia per la popolazione locale non viene solo dagli ordigni del passato. Le aree più a nord sono soggette dal 2015 ai bombardamenti dell’aviazione turca, ufficialmente attiva contro il Partito dei lavoratori curdi (o Pkk).

In questi attacchi – condotti con caccia, elicotteri da guerra e droni dal territorio turco o dalle basi militari turche costruite nello stesso Iraq – restano coinvolti anche i civili, come sanno bene Said e Amad. Questi due signori, entrambi sulla settantina, sono sopravvissuti a un attacco turco condotto qualche mese fa dalla Turchia nell’area di Qamish, a nord di Sulaymaniyah. Said e Amad stavano bevendo il tè con altri anziani del villaggio durante una gita tra le montagne vicine quando un drone turco li ha individuati e attaccati.

«Io e Aziz abbiamo iniziato a correre, mentre Said non è riuscito a muoversi per la paura. Io mi sono nascosto e ho rotolato lungo il pendio per scappare, per cui sono stato solo ferito», racconta Amad, seduto sul letto anziché a terra come tutti gli altri a causa della gamba rotta.

«Continuavo a gridare il nome di Aziz, ma non mi rispondeva. A quel punto ho rivisto il drone sopra di me e sono svenuto per la paura». Il racconto di Amad è interrotto solo dai sospiri del figlio di Aziz, seduto lì vicino e ancora incapace di accettare la morte del padre. «Lì con noi c’era anche mio figlio», aggiunge Amad, «ma per fortuna in quel momento si era allontanato ed è stato risparmiato».

Nel solo 2022, secondo i dati dalla campagna End cross-boarding bombing campaign – di cui fanno parte tra gli altri la ong italiana Un Ponte Per e i Community peacemaker team – almeno 20 civili sono stati uccisi dagli attacchi turchi, tra cui sei bambini, mentre altri 58 sono rimasti feriti. Questi bombardamenti violano la sovranità dell’Iraq, ma il governo locale guidato dai Barzani ha stretti legami con la Turchia e ha scelto di non impegnarsi per porre fine a queste violazioni.

«Interi villaggi sono stati abbandonati per colpa di questi attacchi», continua Amad indicando con un gesto ampio del braccio il circondario. «Ma noi perché dobbiamo andarcene, per chi dovremmo andarcene?», chiede Amad.
Dalle sue parole trapela tutto l’orgoglio di chi non è disposto ad arrendersi e a dire addio a ciò che gli è più caro perché costretto da una forza straniera. «Questa è la terra dei nostri antenati, siamo nati e cresciuti qui e qui resteremo fino alla morte».

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