È l’alba del 24 maggio 2017. La giornata appena trascorsa è stata un susseguirsi di chiamate di emergenza dai telefoni satellitari usati dai migranti in viaggio verso l’Europa verso il centro di coordinamento italiano della Guardia costiera (Imrcc): «Siamo partiti da Sabratha su un barchino, 600 persone a bordo». Cade la linea. L’allarme mette in moto i soccorsi, la posizione satellitare del «barchino» indica che la zona di competenza, secondo gli accordi Italia-Libia siglati pochi mesi prima dal governo Gentiloni, è della Guardia costiera libica, che tuttavia tra il 23 maggio e il 24 mattina non risponde a nessuna delle oltre 50 chiamate effettuate dalla centrale di Roma.

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Domani, in collaborazione con il quotidiano britannico Guardian e RaiNews, ha ottenuto i brogliacci delle comunicazioni di quel giorno e di molti altri eventi che coincidono con altrettanti naufragi in cui hanno perso la vita centinaia di persone, bambini inclusi. Questi documenti rivelano l’inerzia della Guardia costiera libica, che già all’epoca beneficiava del sostengo italiano ed europeo per la formazione e la fornitura di mezzi, come le motovedette, per bloccare il flusso dei migranti. Oltre alla passività dei militari libici c’è un contorno opaco di relazioni con i trafficanti.

È tutto scritto nelle 30mila pagine di atti depositati nell’inchiesta di Trapani sulle navi umanitarie delle Ong, accusate dai magistrati siciliani e dalla polizia di aver stretto un accordo con i trafficanti di uomini. La stessa massa di carte nelle quali sono contenute le intercettazioni dei giornalisti e degli avvocati che si occupano di diritti civili e migrazioni. Il ministero della Giustizia sta verificando se sono state commesse violazioni del codice che disciplina le intercettazioni telefoniche.

Nessuna risposta

Torniamo al 24 maggio 2017. Alle 5 di mattina cinque chiamate in un ora e mezzo, dagli uffici libici non rispondono, tranne una volta ma il militare è sbrigativo: «Non parlo inglese» e riattacca. Dall’Italia provano a ricontattare più volte il satellitare dal quale hanno chiamato i migranti, ma non risponde più nessuno. Nelle stesse ora arriva una nuova chiamata di emergenza: 700 persone partite da Sabratha. Anche di questa si perderanno le tracce rapidamente. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) nelle giornate successive comunica: «Circa 33 persone hanno perso la vita tra cui 13 donne e 7 bambini. L’incidente è avvenuto la mattina presto del 24 maggio». Tra il 22 e il 24 la Guardia costiera di Tripoli non ha risposto alle oltre 50 chiamate di Roma.

Il giorno libero

Il 16 giugno 2017 accade qualcosa di simile, come mostrano le telefonate intercettate dalla polizia nell’ambito dell’indagine di Trapani sulle Ong. L’ufficiale della Guardia costiera libica, Massoud Abdalsamad, ne riceve una alle 8:18 di mattina da un collega italiano. «Ci sono dieci gommoni alla deriva in difficoltà in acque territoriali libiche», il comandante di Tripoli non si scompone: «Cercherò di aiutarli ma oggi è giorno libero...forse domani». Il colonnello italiano insiste, è urgente, e chiede di autorizzare una nave Ong a entrare nelle loro acque di competenza. Massoud risponde: «No, loro no, nessun permesso per entrare in acque libiche». I contatti con Massoud proseguiranno fino alle 12:38, per quattro lunghe ore, solo alla fine a Roma ottengono un contatto di Jamal l’ufficiale in servizio quel venerdì. Ecco il bilancio di quel weekend: 126 tra donne, bambini e uomini sono morti annegati nel tratto di mare libico. Agli atti dell’inchiesta di Trapani c’è un documento in cui gli investigatori affermano che Massoud non è collaborativo, riferendosi all’autorizzazione negata alla nave umanitaria nonostante «i gommoni alla deriva».

Il 29 marzo Unhcr ha annunciato altri naufragi avvenuti nei giorni precedenti. La conferma è nelle comunicazioni, tra il 22 e il 28 marzo, tra centro di coordinamento di Roma e le navi Ong, Golfo Azzurro e Iuventa (sotto inchiesta a Trapani). Comunicano di aver trovato dei cadaveri in mare al confine della zona libica. Anche in quelle ore i colonnelli libici rispondono a stento alle chiamate e quando finalmente rispondono impiegano ore a coordinare gli eventi, come emerge dalle comunicazioni ufficiali. Contattato da Domani, il colonnello Massoud ha risposto che è «difficile ricordarsi di eventi così passati». Ha poi confermato che le comunicazioni con la centrale di coordinamento di Roma «sono difficoltose e frequentemente interrotte». Perché? «La Libia è un paese distrutto dalla guerra». Dunque l’Europa e l’Italia hanno finanziato la formazione della Guardia costiera libica senza grande successo e hanno legittimato i respingimenti in un territorio in guerra di chi fugge dalla miseria e dai conflitti.

I contatti coi trafficanti

I documenti ottenuti svelano anche strani contatti con i trafficanti. In un’informativa su un salvataggio del 23 maggio sono allegate alcune foto di una motovedetta libica che dialoga con i criminali a bordo dei motoscafi, lasciandoli poi andare via. La stessa Guardia costiera libica si avvicina all’imbarcazione dell’Ong e inizia a sparare in aria. L’episodio è raccontato anche nei brogliacci della sala di coordinamento. «Motovedetta libica con uomini armati, hanno sparato in aria per spaventare i migranti», denunciano via radio dalla nave Von Hestia (una delle accusate nell’inchiesta di Trapani) alla sala di coordinamento italiana, che tenta invano di mettersi in contatto con gli omologhi libici. Oltre al danno la beffa: la polizia scriverà che il comandante di Von Hestia non ha riportato l’episodio nel report della missione, omettendo di dire, però, che la Guardia costiera italiana era stata avvertita in diretta. Il comandante Massoud alla nostra domanda ha risposto: «Ci possono essere stati spari in aria perché le persone nelle barche a volte se si muovono possono cadere in acqua. Serve per farli tornare alla tranquillità». Questo è il metodo libico che l’Europa finanzia.

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