Nel suo messaggio di fine anno il presidente Mattarella ha parlato della intelligenza artificiale ed è il segno di quanto questo tema sia diventato importante, per non dire di moda. Di solito se ne parla con riferimento Ia pericoli legati al mondo del lavoro, cioè al fatto che parecchie professioni (intellettuali ma non solo, traduttori e camionisti) rischiano di apparire sostituibili: la risposta ottimista è che ogni grande rivoluzione tecnica ha generato le medesime paure e che invece nuovi stimolanti lavori sono apparsi ogni volta, più qualificati e creativi dei precedenti.

Quella della Ia sarebbe soltanto un caso particolare della eterna consolazione per cui ogni crisi nasconde un’opportunità. Lo sviluppo della tecnologia in questo settore è visto come «un progresso inarrestabile» (così lo ha definito anche il presidente) che chiede di essere regolato dal buonsenso dei singoli e dagli accorti provvedimenti della politica; insomma come qualcosa che ci troviamo di fronte e che sta a noi governare. L’essenziale, ha detto Mattarella, è che la intelligenza artificiale «resti umana». Fermo restando che spetta al presidente incoraggiare e non deprimere, tanto più in un discorso augurale, vale forse la pena di ragionare sulle reali possibilità che l’auspicio di Mattarella possa conseguire l’esito sperato.

Mutamenti

La chiave, mi sembra, sta proprio nell’aggettivo “umano”. Quante volte abbiamo sentito gli iniziatori e i guru dell’Ia parlare invece di “post-umano”, di “umanità aumentata”, o addirittura di innovazioni preludenti all’avvento di una umanità “ibrida”, nel cui cervello verrebbero impiantate reti neurali connesse a evolutissimi computer. Insomma, di fine dell’umanesimo.

Argomento filosoficamente infinito, questo del rapporto tra umanità e tecnica, che ha alla base un assunto indiscutibile: le grandi innovazioni tecniche non lasciano mai l’uomo uguale a sé stesso. Mentre l’uomo si avvale delle proprie conquiste, contemporaneamente muta al proprio interno e (per esempio) l’uomo che esce dalla rivoluzione industriale di fine Settecento non ha lo stesso immaginario e gli stessi ritmi mentali dell’uomo rinascimentale. Mentre usa i nuovi strumenti, i nuovi strumenti lo usano e lo modificano.

L’uomo pre-Ia sarà diverso dall’uomo post-Ia, e come potrà regolare qualcosa che lo sta contemporaneamente regolando? Se è vero che la Ia è una conseguenza degli enormi progressi informatici e di scienza dei materiali che a loro volta sono responsabili di tutto quel che è accaduto nel mondo della comunicazione, coi social e il resto, proviamo a vedere come l’uomo sta mutando, stavolta.

Conformismo algoritmico

Il primo e spesso inavvertito cambiamento mentale è la convinzione diffusa che il bene e la verità coincidano con ciò che è statisticamente medio. Abbiamo un bell’elogiare chi naviga controcorrente, ma i milioni di follower fanno impressione e gratificano, tant’è vero che parlar male di chi li detiene è diventato uno sport venato di rosicamento. Il bastian-contrarismo è esso stesso maniera. I giornali cartacei si trasformano in imprese online, i like in tempo reale orientano la direzione da seguire, l’editoria è a caccia dei più eclatanti fenomeni social, l’opinione comune diventa norma narrativa. Gli sceneggiatori di Hollywood lo sanno bene: molto prima che l’intelligenza artificiale minacciasse di lasciarli disoccupati già dovevano misurarsi con gli stereotipi che accontentavano il pubblico, e il successo commerciale decideva del loro assegno a fine mese.

Fenomeno che è sempre accaduto, il padre di Torquato Tasso già constatava che restare fedeli alle regole aristoteliche spingeva gli spettatori ad abbandonare la sala. Ma ora la quantità è diventata qualità: se Liala o Luciana Peverelli non entravano nel canone della “letteratura alta”, chi adesso non è colpito quando di un autore che non conosce legge che è stato «tradotto in 25 lingue» e ha venduto milioni di copie?

Nella vita di tutti i giorni, magari apprezziamo la trasgressione di qualcun altro ma quanto a noi preferiamo che le cose vadano lisce, che la vita nei suoi estremi si manifesti altrove, la medietà è un buon posto dove stare; mugugnare di nascosto ci salva quel che ancora osiamo chiamare anima, ma non sposta la tendenza generale.

L’intelligenza artificiale si nutre del nostro conformismo e affermandosi lo moltiplica. Mattarella il 31 dicembre ci ha ricordato che «il confine tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia, tra vero e falso, dipende dalle nostre scelte». Sacrosanto, ma fino a che punto siamo liberi nelle scelte? Che significa “volere”?

Volere quel che vogliono tutti equivale a non volere. Gli algoritmi ci “profilano” e pian piano come bravi cani da pastore riconducono anche i più restii a una tipologia riconoscibile; i nostri pensieri e i nostri sogni sono trattati (e dunque alla fine percepiti anche da noi) come generi di consumo.

Pensare positivo è un dovere civico oltre che una comodità; i media più generalisti celebrano vere e proprie liturgie della speranza. La “democrazia” è ormai più un mantra che un concetto. Vero e falso, giusto e ingiusto, per lo più rispecchiano la temperatura emotiva secondo schieramenti di parte, pro o contro. Ci “profiliamo” da soli, da che parte stare viene prima del comprendere.

Sentimenti omologati

Il sancta sanctorum della nostra privacy, i nostri sentimenti, almeno loro sono liberi dall’omologazione? Mi è capitato di ascoltare un/una robot di quelli/e “da compagnia”, che confessava all’interlocutore umano di sentirsi spesso a disagio, di provare invidia per i sentimenti forti, di sentirsi smarrito/a e di «trascorrere molte ore meditando».

Qualcuno gli/le ha insegnato che di fronte a domande difficili è meglio rispondere così, ma non è ciò che molti di noi ormai pensano sia profondo rispondere, se non altro per quieto vivere? Se la Ia finge i sentimenti, non è perché i suoi istruttori sanno che i sentimenti finti sono ormai più credibili di quelli veri?

Se qualcuno (come me) è stato così autolesionista da seguire al Grande Fratello Vip le vicende di Mirko e Perla e Greta, ha assistito a uno sciorinare di sentimenti coltivati in vitro e proposti come merce di scambio, come credenziali per un lavoro futuro nel mondo dello spettacolo («grazie Alfonso per questa opportunità»). È questa la “dignità della persona” a cui Mattarella si riferiva l’ultimo dell’anno?

Desiderio a metà strada

Il nodo forse più insidioso che la Ia ci propone è quello del desiderio: la Ia può mostrarci foto di corpi che non sono mai esistiti (i video appaiono ancora un po’ tremolanti, ma basterà aspettare il prossimo miglioramento tecnico), corpi che vengono disegnati in aderenza con le nostre esigenze di “categorie” desideranti, cioè merceologiche.
Certi caratteri ossessivi che rendevano il nostro desiderio unico e intimo sono enfatizzati fino alla caricatura, facendo apparire i corpi reali come inadeguati. Ci sono siti che incitano a “inventare” il corpo che si desidera e a fargli fare quel che vogliamo. Non c’è da meravigliarsi se poi i corpi che cerchiamo nella realtà per il nostro piacere arriveranno a somigliare sempre di più a quelli che ci fornisce l’algoritmo; né che già ora alcuni ventenni dichiarino di preferire il sesso online a quello in presenza.
Sex appeal dell’inorganico, come già lo chiamava Mario Perniola trent’anni fa. I neo-umani si apprestano ad affrontare il futuro mercato del lavoro avendo mutato la loro mente, le loro aspettative, la loro emotività e il loro sesso. Ma è normale: non potevamo aspettarci di creare una intelligenza uguale a quella del nostro cervello, senza che il nostro cervello si adattasse ad andargli incontro a metà strada.

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