Il più tenero e perturbante dei dipinti di Leonardo al Louvre è un triplice abbraccio che unisce due madri, Maria e Anna, a Gesù bambino e a un agnellino, al cospetto di un lontano, solitario albero. I corpi umani e animali sono tutti una curva, anche i minerali sullo sfondo appaiono flessi come onde. L’albero è l’unico personaggio dritto.

Se si adagia verso destra quel fusto verticale, il quadro, ruotando, rivela una sesta segreta figura che Sigmund Freud aveva scoperto (o forse si era inventato) nel 1910: un gobbo avvoltoio, la cui coda congiunge il seno della Vergine alla bocca del bambino. Provateci: cercate il quadro su wikipedia e girate il telefono in senso orario. La vedete quell’adunca sagoma azzurra? Ecco.

Verticale e orizzontale

Per distinguere le immagini verticali da quelle orizzontali in inglese si usano termini che, in italiano, equivalgono a “ritratto” e “paesaggio”, e dunque alla dicotomia tra umano e naturale, soggetto e oggetto, attivo e passivo.

Ha perfettamente senso: tradizionalmente i ritratti si dipingono tenendo la tela sul lato corto e i paesaggi sul lato lungo – anche col cellulare fotografiamo d’istinto le persone e i panorami secondo le due direttrici cartesiane. Sono direttrici che hanno un significato nella cultura occidentale: il verticale è virtuoso e intellettuale, l’orizzontale grave e corporeo.

Partecipano, queste direzioni, alle divisioni binarie attraverso cui a lungo abbiamo interpretato qualsiasi cosa, inclusa la differenza tra maschi e femmine. Inutile dire che il maschile, come l’umano, tende all’eretto, in contrapposizione al femminile e all’animale paralleli alla terra. Nell’incontro che Antonio Canova ha organizzato tra i due nel marmo di Carrara, si capisce a prima vista che, se li liberassimo dall’istante eterno in cui formano una X di formidabile equilibrio, Amore tornerebbe dritto in alto e Psiche si abbandonerebbe orizzontale in un battito di ciglia.

Critica della rettitudine

I due poli unici di questa geometria (la geometria della croce di Cristo e della croce celtica, dei meridiani e dei paralleli su cui si salpa alla conquista o alla battaglia navale, del cardo e del decumano nei campi militari romani e in quelli di sterminio nazisti) sono separati da molteplici, letteralmente infinite varietà della terza direzione, che diciamo obliqua, diagonale.

È la direzione che ci appare sbagliata, storta; quella che ci dà conforto raddrizzare appunto. La notiamo subito, la vogliamo correggere. Eppure è la direzione più frequente, più varia e, come ci illustra il soggetto recondito del quadro di Leonardo, l’unica capace di rivelarci certi segreti che abbiamo sempre davanti agli occhi.

D’altronde, anche messo (come si dice) “per dritto”, quel quadro nega la drittezza: è un ritratto delle inclinazioni e delle storture che formano radici e congiungimenti, che sostanziano amore e altruismo. Per questo Adriana Cavarero ci si sofferma nella sua critica femminista della rettitudine, in cui smonta la tradizione filosofica dell’uomo retto ed eretto contrapponendogli una soggettività storta, generosamente piegata verso l’alterità.

Storti e precari

Come tutti, ho guardato su Netflix Strappare lungo i bordi di Zerocalcare, ridendo fino alle lacrime e infine continuando a piangere di commozione. E ho pensato all’avvoltoio nel quadro di Leonardo, sulla copertina dell’edizione americana del libro di Cavarero, che si vede se lo tieni storto. Non solo perché anche la serie, in fondo, funziona così, ostendendo cinque personaggi e nascondendone un sesto che li soppianta e sussume, vero protagonista, nelle maglie di una struttura solo apparentemente verticale con innesti orizzontali. Ma anche proprio per associazione visiva: la forma di quell’avvoltoio curvo mi ricorda la postura, mai eretta, dell’alter-ego grafico di Michele Rech. Sta sempre gobbo, direbbe mia madre.

Guardando Il divo di Sorrentino, ai tempi, ricordo l’imbarazzo di simpatizzare con l’Andreotti di Servillo quando la segretaria lo implora di non stare gobbo e lui, sornione, sospira «ma sto tanto comodo così». Mi hanno cresciuto con l’idea che stare gobbi (e comodi) fosse una cosa sospetta, foriera di sciagure mediche e morali. Un mantra ora ereditato dall’allenatore virtuale nel mio telefono: petto in fuori, mento in su, stai dritto.

Eppure, se penso a come vorrei apparire, mi immagino da sempre storto e interessante, come i cattivi dei cartoni giapponesi drammatici che davano la sera su Mtv. Hideaki Anno ha reso fichi i robottoni da combattimento facendoli ingobbiti come adolescenti, al contrario dei massicci, rittissimi mecha maschioni anteriori al suo Evangelion (quelli da tv locale: Mazinga, Goldrake, Jeeg).

A diciassette anni mi parve che l’unico personaggio carismatico della Vendetta dei Sith fosse il ricurvo generale Grievous, persino più memorabile del drittissimo (ma con la spada laser storta) conte Dooku di Christopher Lee. Anche quando insegno, mi fanno notare, sto sempre un po’ piegato, in bilico. Sarà che noialtri nativi della crisi abbiamo fatto del precariato anche un’estetica, una prossemica.

Il palestrato dritto

L’eponima sagoma da strappare, nella sigla di Zerocalcare, è quella di un palestrato con la schiena dritta. Ricordo nitidamente che il lemma “palestrato” emerse nell’italiano standard ventuno anni fa, con Pietro Taricone (buonanima) protagonista del primo Grande fratello. Le mancate erezioni di quel palestrato costituirono forse il primo discorso pubblico a raggiungere me e i miei coetanei, in Italia, sulla fisiologia maschile, e sulle aspettative che vi si ripongono.

Il cric che fallisce in una delle centrifughe diversioni dalla retta della trama di Calcare (un appuntamento con l’agnizione, con un’epifania freudiana) fa da esilarante correlativo oggettivo fallico per quello stesso discorso da evo berlusconiano. Come in 8 e mezzo o nell’Orlando furioso (o, dirò per fare il coatto, come in questo articolo) rifiutarsi di arrivare al punto, fingere di non essere capaci a camminare su una linea diritta è in fondo un’abiura (meglio: un’alternativa) alla virilità.

Si pensi al Guido di Fellini, a Ruggiero sull’isola di Alcina, alla mingherlina figura con le spalle in dentro che affiora (invece del tratteggiato palestrato dritto) dagli strappi di Calcare nella sigla.

L’intellettuale storto

Strappare lungo i bordi trabocca di cose da maschi, dal bagno in cui la tazza è «solo un’indicazione che te ricorda: questa stanza è il cesso» alla «schicchera de testosterone», ma quella che mi rapisce di più è la schiena storta del protagonista. Che poi è la schiena storta dell’autore.

Se tornate su wikipedia e aprite la sua foto lo trovate curvo curvo, nel 2012, chino sulla solinga catena di montaggio di disegnetti a un firmacopie di cui si può immaginare la chilometrica fila. La sua figura è tutta un angolo, a girarlo sembra che stia pregando.

Dopo quasi dieci anni di successi, Rech è ancora lì, inchinato come un servo d’amore: i piedi incrociati come sotto un banco di scuola media, il collo affondato nelle spalle; non si sottrae alle folle ormai oceaniche sebbene si rappresenti notoriamente come (e probabilmente sia davvero) un misantropo introverso. Parla perennemente dei cazzi suoi e proprio per questo parla a (di) tutte e tutti. Aderisce alla filosofia straight edge ed è il principe degli storti.

Fedele alla linea

Come cantavano i Cccp, Calcare resta fedele alla linea anche quando non c’è. Fedele a un territorio, a un credo politico, a un’etica e a una condotta lavorativa e sociale – l’armadillo, totem delle bestie che si curvano al punto da appallottolarsi, incarna in fondo un ostinato marxismo solidale ma cosciente, fieramente pigro ma mai indulgente, corazzato appunto. La sagoma disegnata da quella linea che non c’è appare magicamente, come l’avvoltoio di Leonardo, se si guarda la serie per storto.

È nella lapalissiana presa per il culo, certo, di una narcissica maschilità d’inetto mammone logorroico, erede filosofico di Engels (tiè!) e del Bo Burnham di Inside che parte subito dopo su Netflix. Ma è anche e soprattutto in certi dettagli che già stanno alzando un casino politico laddove l’accento di Roma non è un tema di discussione nazionale: la bandiera del Kurdistan, la parodia di Mao, la guerrigliera che si fa esplodere nel deserto, quel perculare le guardie che ai miei amici in America mette l’ansia («ma davvero questo è mainstream in Italia?»).

Il contrario di straight

Freud ha scovato l’avvoltoio in cerca di indizi sull’omosessualità di Leonardo. Amare le femmine, ci rammenta Calcare esibendo al minuto 2:00 l’inevitabile retaggio d’omofobia introiettata di qualsiasi infanzia prossima al Raccordo (tipo la mia), è da froci. Ma mica bisogna essere froci per non essere “straight”, che in inglese vuol dire sia dritto che il contrario di queer. Basta stare storti.

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