Vi capita mai di provare la sensazione di essere fermi, di non muovervi proprio – o di far passi indietro – mentre il resto d’Europa – okay, il resto forse no: diciamo piuttosto una buona parte – va avanti, procede lungo un percorso che, fino a pochi anni fa, ci sembrava certo? Vi capita mai di provare la chiara, netta sensazione che le lancette dell’orologio in Italia invece che andar avanti, come dovrebbe esser in effetti, vadano a ritroso? Vi capita mai di pensare che il tragitto intrapreso sia al contrario, la direzione sia il passato, che non stiamo progredendo? Vi capita mai di aver paura?

No? Buon per voi. Sì? Okay, non siete soli, parliamone.

Qualche settimana fa, a cena con alcuni amici – tutti quasi trentenni – un disgraziato – lo chiamo così perché a fine conversazione avevamo l’umore che strisciava in terra – ha tirato fuori la politica, cioè ha cominciato a parlarne così dal nulla, e, nel giro di niente, eravamo impantanati in un gran listone di notizie pessime. Notizie pessime che, a metà cena, hanno assunto dei contorni al tempo stesso più pesanti, oscuri, e più leggeri, luminosi. Difatti, il paragone con ciò che succede negli altri Paesi europei ci ha sia sollevati sia appesantiti.

Che cosa accade altrove

In concreto.

In Francia è stato approvato di recente un disegno di legge per risarcire le persone della comunità lgbtq+ che tra il 1942 e il 1982 sono state vittime delle leggi dell’epoca. Sempre in Francia, l’aborto è stato inserito nella costituzione e Macron ha annunciato un progetto di legge sul fine vita. Lo scorso febbraio, il parlamento greco ha approvato sia il matrimonio egualitario, il ventunesimo dell’Unione europea, sia pure l’adozione per le coppie omogenitoriali, tirando su a quattordici il numero di Paesi in cui è legale nel vecchio continente (vale la pena ricordare che in Grecia a governare è il centrodestra). In Germania, nel frattempo, il parlamento ha dato il via libera alla legalizzazione della cannabis, possesso e coltivazione, si badi. In Spagna il salario minimo è stato, da poco, aumentato del 5 per cento. Nel Regno Unito la settimana lavorativa breve – quella che prevede quattro giorni – è stata recentemente sperimentata ed è stata un grande successo, per cui è probabile che non si tornerà indietro; il Regno Unito non è più parte dell’Unione, lo so, però mi faceva gioco riportare la notizia, scusate.

Potrei andar avanti, mi fermo qui.

Ora, so che l’erba del vicino è sempre più verde e so che a guardare le cose da una certa distanza, come accade quando studiamo un Paese straniero, i dettagli non siamo granché capaci di coglierli, e però che nella maggior parte dell’Unione europea si stiano facendo dei bei passi avanti mi pare innegabile. Ed è evidente anche, forse soprattutto, perché il confronto con il nostro Paese è, specie oggi – in questo periodo – impietoso.

Che cosa accade da noi

In concreto.

A Pisa e a Firenze sono stati manganellati degli studenti – universitari, liceali; alcuni minorenni – che manifestano per la Palestina e il suo popolo, da mesi – no: da anni, in realtà – massacrato. Ad Acca Larenzia, lo scorso gennaio un migliaio di persone hanno teso il braccio destro: al grido di “Presente”, saluti romani come fossimo tornati a cent’anni fa. Sempre a gennaio, in sala stampa a Montecitorio – prenotata da un deputato della Lega, partito al governo – si è tenuto un convegno, o così lo hanno voluto definire, in cui a più riprese è stato detto che l’aborto non è un diritto legalmente accettabile – lo è – che anche in caso di stupro «la madre non è autorizzata a uccidere il bambino». A proposito dell’aborto, la ministra per la Famiglia dell’attuale governo, Eugenia Roccella, non va scordata, c’è l’intervista del 2023: Serena Bortone: «L’aborto fa parte delle libertà delle donne?», Roccella: «Purtroppo sì», ripetuto ben tre volte. A giugno dell’anno scorso, la procura di Padova ha impugnato gli atti di nascita di trentatré bambini, figli e figlie di coppie omogenitoriali, chiedendo venissero modificati togliendo l’indicazione della madre non biologica.

Potrei andar avanti, mi fermo qui.

Con questo non voglio dire che nel resto d’Europa va tutto bene, giuro. Che al di là dei nostri confini sia tutto rose e fiori, che siamo i soli ad aver certi problemi. Intendo piuttosto sottolineare certe differenze, e intendo soprattutto sottolineare come fatti – le manganellate sugli studenti, i saluti romani – e frasi – quelle al convegno a Montecitorio, quelle della ministra Roccella – vengano dimenticati nel giro di niente. Esplode il caso, in tivù e sui giornali e sui social non si parla d’altro per qualche giorno, e poi cade, sprofonda tutto, fatti e frasi, nell’oblio, ché tanto, di certo, c’è sempre una nuova oscenità di cui discutere. Ecco, penso questo sia un problema, e anche grosso: ci stiamo anestetizzando rispetto alle brutture e, così facendo, stiamo perdendo la capacità di vedere il pericolo e i danni che in queste brutture, fatti e frasi, si annidano. E okay, sì, lo capisco: non possiamo concentrarci su ogni cosa, non possiamo star appresso, e giorno dopo giorno, a tutte le cose che capitano, a tutte le cose che dicono, che fanno. Operare una cesura, tener il mondo fuori dalla porta di casa è pure necessario, ché altrimenti si corre il rischio di ritrovarsi saturi (appunto: sopraffatti). Però, c’è sempre un però, a lasciar correre tutto ci anestetizziamo, tirando su, senza manco accorgercene, l’asticella della nostra sopportazione: tante più oscenità fanno e dicono, tanto più ci abituiamo, tanto più saremo disponibili ad accettare oscenità sempre più grandi. E nel frattempo la cultura del nostro Paese cambia e si modella attorno a nuovi codici, a nuovi fatti e frasi.

Il candidato Vannacci

Qual è il limite?

Me lo sono chiesto molto, troppo?, spesso, in questo periodo, e, ahimè, mi è sempre venuto in mente il generale Roberto Vannacci. Sospiro.

Il generale che esprime preoccupazione perché in Italia – anzi no, non solo qui: nel mondo intero – delle lobby stanno cercando di prendere il potere, mettere il mondo al contrario, ma da anni ricopre lui stesso dei ruoli di potere.

Il generale che si lamenta delle troppe attenzioni rivolte alla comunità lgbtq+, ma da mesi, ormai, non si può accendere la tivù o sfogliare un giornale senza trovarlo appollaiato lì.

Il generale che mette in guardia – ma chi? – sui pericoli che corriamo, noi tutti, a restringere sempre più il campo delle cose che sarebbe meglio, più opportuno, giusto non dire, ma tra libri, tivù e giornali seguita a sparare a zero: «Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione!», «Il lavaggio del cervello di chi vorrebbe favorire l’eliminazione di ogni differenza compresa quella tra etnie, per non chiamarle razze», «Mussolini è uno statista e non lo giudico, non voglio dare giudizi su un politico e un periodo storico».

Per mesi mi sono trattenuto dallo scriverne – non volevo dar attenzioni a lui, ai suoi libri – ma ho capito che così facendo invece stiamo commettendo un errore grave, e pericoloso: stiamo normalizzando qualcosa che dovremmo combattere. Lo ascoltiamo o lo leggiamo, e ci facciamo una risata, pensiamo siano frasi urlate al vento, senza importanza, però ci sbagliamo. Quello del generale è linguaggio discriminatorio cui ci stiamo abituando, ed è uno dei meccanismi che fa girare a ritroso l’orologio dell’Italia.

Secondo il Washington Post, negli stati degli Stati Uniti in cui sono state promulgate leggi che discriminano la comunità lgbtq+ gli episodi di bullismo sono quadruplicati. Certo, ciò che dice il generale non è legge, e però, di certo, contribuisce a fondare una cultura divisiva, a far vedere il nostro Tempo come un periodo di guerre tra fazioni.

Lo capite perché è pericoloso? Perché ogni parola simile a quelle che ho sopra elencato pronunciata e passata sotto silenzio, che accettiamo con uno strano nodo allo stomaco e senza però darle battaglia, potrebbe risultar essere, un giorno, un tassello del presente costruito oggi. Stiamo edificando il futuro: vogliamo davvero che le basi siano queste?

No, proprio no. Diamo battaglia, quindi.

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