In una compagine di governo che alterna inerzia e sregolatezza, moderazione e intemperanza, si segnala per pacatezza la figura di Eugenia Roccella.

Non dovrebbe sorprendere, certo, che la titolare di un ministero senza portafoglio come quello per le Pari Opportunità – che è ora anche per la Famiglia e la Natalità – resti per lo più lontano dai riflettori.

Nel caso di questo governo, però, parliamo della figura chiamata a interpretare la dottrina della destra su alcuni dei temi che hanno contrassegnato la sua proposta identitaria negli anni trascorsi all’opposizione e in campagna elettorale: i modelli familiari e genitoriali, il genere e la sessualità, l’intreccio tra politiche pronataliste e politiche di difesa dell’“italianità”.

Roccella è stata scelta perché rappresenta le istanze che provengono dai movimenti pro life, pro family, anti gender, ovvero la galassia politica che ha animato alcuni anni fa il Congresso mondiale delle famiglie di Verona. Possibile che, al momento di prendere le leve del comando, una figura come lei assuma il volto di timida esecutrice di disposizioni già in gran parte disegnate dai governi precedenti?

È questo che è emerso nell’audizione dei giorni scorsi a Montecitorio sulle linee programmatiche del ministero: sostanziale continuità in fatto di politiche sulla violenza, misure a favore dell’occupazione femminile, assegno unico per i figli.

La «discontinuità», secondo Roccella, starebbe nel forte accento sul «valore sociale della maternità» e l’obiettivo di contrastare la denatalità.

Ma nemmeno questi sono in realtà argomenti nuovi, né destinati a fare rumore come le intemerate dei ministri Valditara, Sangiuliano o Paintedosi.

Di nuovo c’è, invece, il tentativo di una figura così organica all’universo valoriale della destra conservatrice di reclamare per sé l’appellativo «femminista».

È forse su questo terreno che si gioca la partita identitaria più interessante, e per molti versi più insidiosa, perché capace di agire sui significati diffusi, quindi sul senso comune.

La strategia di Roccella si articola in tre mosse. La prima è la negazione di qualsivoglia intento reazionario.

La ministra ha colto ogni occasione utile per ribadire che il governo non intende colpire le donne nella loro libertà, ma anzi intende renderle «davvero libere» in fatto di maternità, sostenendo la scelta di avere figli che oggi è ostacolata dalla precarietà lavorativa e dalla mancanza di effettive reti di sostegno.

Il che tuttavia, al di là del lessico misurato, significa trattare le donne come innanzitutto (benché non solo) madri.

Roccella ha anche insistito a più riprese sul fatto che il governo non intende toccare la legge 194, ma garantire la possibilità di non abortire.

Una posizione che è però piuttosto comoda, perché allo stato attuale, soprattutto a causa dell’abuso dell’obiezione di coscienza e degli ostacoli alla somministrazione della pillola Ru486, l’accesso ai servizi di interruzione di gravidanza è di fatto reso complicato dalla carenza di medici, nonché dalla presenza di attivisti dei “centri di aiuto alla vita”.

Dunque, non sostenere la legge 194 equivale a garantirne il cattivo funzionamento.

L'abuso del femminismo

La seconda mossa è l’appropriazione di temi e linguaggi appartenenti al femminismo e alla sua storia.

In particolare, Roccella ha evocato spesso le posizioni del femminismo italiano della differenza, arrivando a citare Carla Lonzi per dire «ho imparato dal femminismo che l’aborto non è un diritto». La manipolazione, però, è piuttosto palese.

Intanto perché, come ha scritto Ida Dominijanni, anche lei chiamata in causa dalla ministra, dire che l’aborto non era un diritto per il femminismo di allora significava dire che è «molto più che un diritto», che «è un potere inalienabile del materno» e «una libertà insindacabile di ogni donna».

Poi, perché se si vuole citare Lonzi si dovrebbe andare fino in fondo, ricordare che per quella figura straordinaria del femminismo il punto era mettere radicalmente in questione il nesso tra sessualità e procreazione.

Quale contenuto può avere una procreazione per «libera scelta», si chiede l’autrice di Sessualità femminile e aborto, se la cultura incarna esclusivamente il punto di vista maschile sull’esistenza, condizionando così a priori ogni agire della donna?

E quale libertà è contenuta nella possibilità di abortire, se il concepimento è frutto di un modo maschile di concepisce la sessualità?

La libera sessualità, per Lonzi, non coincide né con il libero aborto né con la libera contraccezione, ma si manifesta come sviluppo di una sessualità non procreativa, polimorfa, sganciata dalla finalizzazione vaginale. Non sono affatto sicura che questo sia ciò che intende Roccella, né che sia il programma della destra di governo.

La cappa del buon senso

La terza mossa, infine, è quella del «buonsenso». Parola, questa, che è diventata caratteristica del discorso politico della destra populista, dove troviamo un «popolo» dotato di una naturale capacità di distinguere il giusto e il bene, senza l’interferenza di partiti e contro le «ideologie».

Roccella evoca il «buonsenso» contro il «conformismo» di posizioni che si vorrebbero trasgressive, come quelle di Fedez a Sanremo. «Alcune cose che un tempo erano ovvie, scontate, oggi è diventato difficile dirle» ha dichiarato in un’intervista a La Stampa.

«Come il fatto che le donne che abortiscono non sono contente di farlo. Che non è un momento di felicità».

Eppure ciò che la ministra tratta come ovvietà è stato ed è per il femminismo oggetto di infinite riflessioni, che hanno avuto al centro non il lutto e la sofferenza (le donne fanno esperienze diverse, come diverse sono le donne), ma l’autonomia e responsabilità delle donne come soggetto morale. 

Di contro, le retoriche di vittimizzazione applicate a ogni aspetto dell’esistenza delle donne finisce per favorire approcci paternalistici e moraleggianti, come ricorda Tamar Pitch nel suo libro Il malinteso della vittima (edizioni Gruppo Abele).

Più ancora, però, bisogna notare che il «buonsenso» è di per sé in contraddizione con lo sforzo di ogni movimento per i diritti, e tanto più del femminismo, per sovvertire i rapporti di potere.

Perché l’azione di trasformazione della società nasce sempre da una visione controfattuale, dalla necessità di affermare principi più avanzati di uguaglianza, libertà, giustizia “contro” la realtà, contro uno stato di cose in cui “nei fatti” alcuni soggetti sono oppressi, marginalizzati, trattati come disuguali o privati della libertà.

È per questo che tendiamo ad associare il femminismo alla “sinistra”, con buona pace, anche qui, di Roccella, per la quale il femminismo non è né di destra né di sinistra, ed è oggi – lei crede – meglio interpretato dalla destra che esibisce una leader donna.

Non è la consonanza dei partiti dell’arco “progressista” con le istanze femministe a decidere di questa collocazione, ma piuttosto l’orientamento rispetto alla grande divisione che – Norberto Bobbio insegna – passa dalla «valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale ed eguaglianza-diseguaglianza sociale».

Dove uguaglianza, possiamo aggiungere, deve essere trattato come un concetto complesso, che unisce il rispetto delle differenze e il contrasto delle diseguaglianze sostanziali.

Il femminismo, continuava Bobbio nel suo Destra e sinistra, è un movimento egualitario, in quanto vede le diseguaglianze tra uomini e donne come «il prodotto di costumi, leggi, imposizioni del più forte sul più debole», che sono in quanto tali «socialmente modificabili».

Viceversa, la destra accetta come immutabile «ciò che è naturale», ma anche «quella seconda natura che è la consuetudine, la tradizione, la forza del passato». Possiamo dire, per questo, senza timore di sbagliare, che non è femminista?

Allora, Roccella ha ogni diritto di difendere lo status quo e di promuovere l’agenda politica conservatrice della destra di governo. Ciò verso cui è necessario tenere alta la guardia è però l’operazione semantica che rischia di deformare il femminismo, la sua storia, il suo presente.  

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