«Sono nera, sono povera, sono brutta, ma sono qui». Queste parole urlate da Celie, la protagonista di Il colore viola, mentre spalanca le braccia e mostra quanto spazio può occupare, segnano il momento della risalita. La donna che per tutta la sua vita ha conosciuto solo il servizio del prossimo e la violenza degli uomini finalmente si riconosce.

È un passaggio che si inserisce bene in quella tornata di film usciti negli ultimi mesi che, passando da generi diversissimi tra di loro, in un modo o nell'altro si interrogano sull'identità femminile e sull'autodeterminazione. È un buon momento storico per riportare sullo schermo Il colore viola, dal romanzo Pulitzer di Alice Walker, la storia di una liberazione dagli abusi. Ancora di più, viene fatto in forma di musical, pescando a piene mani dal blues e dal R&B.

Onda femminista

Il favorito agli Oscar Oppenheimer di Christopher Nolan si sente infatti il fiato sul collo di Povere creature! di Yorgos Lanthimos, dove una giovane che ha tentato il suicidio riceve una seconda possibilità grazie a uno scienziato che le trapianta il cervello del feto che portava in grembo. Bella Baxter, questo il nuovo nome, fa esperienza del mondo intorno ripartendo da zero, senza nessun preconcetto: individua le storture della società e degli uomini e si forgia un carattere da sola. La nemesi storica di Oppenheimer, Barbie di Greta Gerwig, è incentrata sempre sul percorso di consapevolezza della bambola Mattel che scopre cosa significa essere donna. A superare entrambi i film in termini di incassi in Italia, C'è ancora domani di Paola Cortellesi: una donna intrappolata in un matrimonio violento, nel secondo dopoguerra, si ritaglia una speranza.

Ed ecco Il colore viola di Blitz Bazawule, in uscita nelle sale italiane l'8 febbraio. Celie vive con la sorella Nettie nella Georgia di inizio Novecento. La schiavitù è stata abolita, ma le leggi Jim Crow sono in vigore. Celie aspetta un bambino dall'uomo che chiama “Pa'” – ha 14 anni, è la sua seconda gravidanza – ma quando il piccolo nasce le viene portato via, come era successo per la prima figlia. Viene data in sposa a un uomo molto più anziano di lei, in cerca di una matrigna per la sua pestifera prole: Mister, così si fa chiamare, è violento, ama un'altra, e le impedisce di vedere la sorella.

Al dolore del quotidiano si accompagnano però l'amicizia con la nuora Sofia e soprattutto l'amore per la cantante Shug. Sono quarant’anni che questa storia viene raccontata: e ogni volta, chi l’ha interpretata l’ha presa come un’occasione di “guarigione”. Dal proprio trauma personale, dal trauma generazionale.

Le versioni precedenti

Prima è uscito, per l’appunto, il romanzo di Alice Walker, nel 1983: la vicenda è raccontata attraverso le lettere che Celie scrive a Dio. Vince il National Book Award e il premio Pulitzer. Nel 1985 arriva l'adattamento firmato da Steven Spielberg con Oprah Winfrey nel ruolo di Sofia e Whoopi Goldberg nei panni di Celie. Vent'anni dopo, il libro diventa un musical a Broadway, con libretto di Marsha Norman, e la protagonista LaChanze vince un Tony award, il premio più importante nel mondo del teatro statunitense. Il revival del musical, nel 2015, vince due Tony e un Grammy.

Musical come rivendicazione

È proprio dal musical che Bazawule riparte per la versione del 2023. Non si pone in rottura con il film precedente: è prodotto da Spielberg e Winfrey, la stessa Goldberg è presente in un cameo. Il regista ghanese è anche produttore discografico e ha co-diretto Black is King con Beyoncé nel 2020: è a suo agio con il genere musicale. Ai brani originali dello spettacolo si uniscono pezzi scritti apposta, reinterpretati in un altro album da Alicia Keys, Mary J. Blige, Megan Thee Stallion.

Il film è in grado di mantenere la teatralità della messinscena, senza sacrificare la maggiore vicinanza ai personaggi che offre invece la macchina da presa. Dove Spielberg ricorreva alla voce fuori campo per ricalcare la forma epistolare del romanzo, qui basta intonare una nota per essere trasportati nella dimensione in cui i pensieri corrono liberi. Bazawule carica i brani di un elemento ulteriore: «Il nostro regista ha dato a Celie l'immaginazione», ha raccontato a Cbs l'attrice che la interpreta, Fantasia Barrino, che aveva già vestito i panni di Celie a Broadway. I momenti musicali diventano quindi onirici: Celie fantastica di scappare, per poi ritrovarsi anche nella finzione tra file di uomini costretti ai lavori forzati e donne che lavano i panni. Oppure, sogna di danzare con Shug su un disco di vinile, mentre gira il grammofono.

C'è chi non ha apprezzato la scelta del musical vista la durezza della trama. La violenza dei bianchi, che non si mescolano con la comunità nera ma rovinano la vita di Sofia, è mostrata in misura minore.

I critici del Guardian hanno invece osservato come gli aspetti più crudi del film di Spielberg siano stati ammorbiditi, e come la relazione tra Celie e Shug, per quanto più esplicita rispetto al titolo del 1985, abbia perso la sua carica più erotica e anche la sua centralità nel percorso di autodeterminazione di Celie.

Allo stesso tempo il genere, come ricorda il New York Times, è intrinsecamente legato alla stessa tradizione filmica nera. Come il jazz, come il blues, il musical era uno spazio di liberazione: «Bazawule ha dato al pubblico un compendio integrale di cinema nero». Il pezzo procede a elencare tutti i riferimenti sparsi lungo il film: da Rhapsody in Black and Blue di Aubrey Scotto, con Luis Armstrong, a The Flying Ace, un titolo del 1932 interpretato da un cast interamente afro-americano e pensato per un pubblico altrettanto afro-americano (all'epoca opere del genere venivano chiamate race movie).

#OscarSoWhite

La forza di questa versione sta soprattutto nelle interpretazioni. Fantasia Barrino, Danielle Brooks (Sofia, già a Broadway) e Taraji P. Henson (Shug) hanno infuso i loro personaggi di un'energia moderna. La rabbia, ma anche la gioia e la sfacciataggine che si portano dietro sono immutate oggi. A più riprese tutte e tre si chiedono dove si trova Dio: è sempre più evidente che non è nel mondo esterno. Di fronte a un trio che regge due ore e venti di film con tanta grinta, la sola nomination agli Oscar di Brooks come attrice non protagonista ha suscitato il malcontento del pubblico, che sperava almeno in un riconoscimento a Barrino.

Ai Golden Globe e ai Bafta queste nomination erano arrivate. Lo scontento è passato in sordina rispetto al Barbie-drama per l'esclusione di Margot Robbie e Greta Gerwig da una delle loro rispettive categorie, ma Forbes ha richiamato l'attenzione sull'eterno problema di inclusione dell'Academy: «Ricordate l'hashtag #OscarSoWhite del 2015? Sottolineava la mancanza di rappresentazione e i pregiudizi agli Oscar. Eccoci qui di nuovo».

Secondo Business Insider, sulle mancate nomination ha pesato tutta una serie di circostanze sfortunate. L'uscita nelle sale statunitensi il giorno di Natale, a ridosso dell'annuncio delle candidature: per quanto gli screener vengano inviati prima, sono stati tanti i film rinviati a fine anno per lo sciopero degli attori e degli sceneggiatori. Troppi per essere visti tutti dai giurati. Poi, la stessa casa di produzione Warner Bros avrebbe puntato quasi tutto su Barbie, il successo di incassi maggiore. In piccola parte, potrebbe anche aver influito la denuncia di Henson sulle condizioni di lavoro sul set, prima che la produttrice Oprah Winfrey intervenisse per cambiare la situazione.

Quello che è certo è che non batterà il record negativo del film del 1985, che aveva ricevuto 11 nomination agli Oscar per non vincere in nessuna categoria. A incidere, il boicottaggio di registi neri e della Naacp (National association for the advance of colored people) che non avevano apprezzato lo sguardo bianco di Spielberg.

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