«Whatever comes tomorrow/ Happened yesterday». Così cantavano nei primi anni Ottanta gli Oppenheimer Analysis, gruppo cold wave (oltre che ossessionato dalla cold war) le cui registrazioni sono state pubblicate solo una decina di anni fa. Un verso che si adatta perfettamente al cinema decostruito di Christopher Nolan, che a un altro Oppenheimer – Robert, inventore della bomba atomica e perseguitato negli anni della guerra fredda – ha dedicato il suo ultimo film, già uscito negli Usa ma che sarà nelle sale italiane solo a fine agosto. «Whatever comes tomorrow/ Happened yesterday» potrebbe essere l’epigrafe di questo film ipnotico sulla fine del mondo già iscritta in ogni attimo della storia umana.

Il mese di ritardo voluto dai distributori italiani ci ha messi al riparo da un’altra guerra fredda, quella tra il film di Nolan e la Barbie di Greta Gerwig, un’uscita simultanea che i media statunitensi hanno ribattezzato Barbienheimer. L’accostamento è meno astruso di quanto possa sembrare, dal momento che entrambi i film raccontano di come un’invenzione americana fatta a metà del secolo – nel 1945 la bomba, nel 1959 la bambola – continui a esercitare una fortissima influenza anche oggi. E poi quest’accoppiata tra le tinte rosa da una parte e quelle grigie dall’altra ha risvegliato un altro conflitto: quello tra femmine e maschi. Allora, chi sta vincendo? Qui entriamo in un terreno minato, anzi radioattivo.

Joker for ladies

Quando nel 1999 usciva Matrix e io ero al liceo, mi ero accodato alla moda secondo cui il film non fosse altro che una variazione piuttosto didascalica sulle idee filosofiche di Platone, degli gnostici o di Jean Baudrillard. All’epoca un sacco di persone molto intelligenti, evidentemente troppo intelligenti, non avevano capito quello che avevano di fronte: una metafora straordinariamente efficace, che avrebbe ispirato tantissime persone negli anni a venire.

Il senno di poi mi ha vaccinato da certi snobismi e mi permette oggi di guardare un film come Barbie arrendendomi all’evidenza che le metafore, per essere potenti, devono talvolta essere didascaliche. E poco importa se il film di Gerwig inizia forte come il primo Matrix, mettendo in scena il suo mondo virtuale, ma finisce esattamente come il terzo film della serie, in un pasticcio confuso e retorico –Barbie revolutions? – in cui la creatura incontra la creatrice per offrirci un messaggio indecifrabile sull’essere sé stessi. La reazione del pubblico femminile non mente: questo film dice qualcosa, lo dice forte e chiaro, e tanto basta a farne un film importante.

Questa ricezione ha sorpreso una parte del pubblico maschile, che fidandosi del packaging rosa shocking è subito partito lancia in resta per denunciare un filmetto superficiale e si è beccato in cambio l’accusa di sessismo. E invece il film di Gerwig funziona perché trova un modo di salvare la bambolina svampita e il suo mondo rosa shocking assorbendo il negativo di quel modello in una dialettica emancipatoria che coincide con il cammino di autocoscienza della Mattel. Cammino parallelo di un personaggio, di una marca e in fondo di un paese intero, gli Stati Uniti d’America, che dopo avere promosso per mezzo secolo un certo ideale “frivolo” di donna, oggi ne propongono fieramente un altro più “emancipato”.

Probabilmente l’analogia da fare, più che col Matrix delle oggi sorelle Wachowski, è con il Joker di Todd Phillips: Barbie sembra parlare a molte donne come il clown assassino parlava a molti uomini. Se nel personaggio interpretato da Joaquin Phoenix venivano proiettate le frustrazioni e i sogni violenti di rivalsa di un’intera generazione di maschi borderline, la bambolina di Margot Robbie offre invece la speranza di una conciliazione tra diverse aspirazioni: frivola ed emancipata, perché no?

Oppenheimer Analysis

Che due stati diversi della materia possano coesistere ce lo insegna la fisica moderna, e ce lo ricorda Oppenheimer di Nolan nella sua scialba prima parte in stile A beautiful mind: genio, sregolatezza, lavagne e metafore scientifiche strasentite. Ma qui al contrario di Barbie il film cresce, per tre ore cresce, e raggiunge l’apice nell’ultima scena, anzi nell’ultima frase. 

Robert Oppenheimer è, in fondo, un Ken che ce l’ha fatta. Nel film di Greta Gerwig il personaggio interpretato da Ryan Gosling incarna il peggio del genere maschile: egoriferito e rissoso, importa il patriarcato a Barbieland. Incarnazione plastica, e di plastica, della diagnosi data dalla filosofa Luisa Muraro, ovvero che «degli uomini piace il loro andare a caccia di grandezza e inventarsi imprese e avventure» ma «fa paura quello che poi troppo spesso si lasciano dietro, come rotoli di filo spinato, lattine, carcasse, odi, confini tracciati a caso». O bombe atomiche.

Ma è davvero il fisico interpretato da Cillian Murphy l’inventore di quest’arma terribile? Il film porta a dubitarne. Se Oppenheimer ha coordinato il progetto, in nessun momento ci viene suggerito che lui abbia avuto un’idea particolarmente brillante, o che la storia sarebbe andata diversamente se lui non ci fosse stato. L’invenzione fu chiaramente un’opera collettiva, e non solo da parte della squadra del progetto Manhattan coordinata dal fisico americano, ma di tutti gli scienziati del mondo, di tutta la storia dagli antichi greci in poi. 

La bomba atomica, in fondo, si è inventata da sola. O meglio non poteva non essere inventata. Anzi viene inventata precisamente perché a un certo punto diventa ovvio, per via di certi calcoli, che qualcuno l’avrebbe inventata. Ma quei calcoli erano conseguenza di altri calcoli. È la possibilità della bomba atomica che costringe a creare la bomba atomica. Come nella prova ontologica dell’esistenza di Dio di Sant’Anselmo, l’essenza implica l’esistenza: se può essere pensato allora ha anche già l’attributo della realtà. È la risposta al dilemma etico che percorre tutto il film: cosa ha potuto spingere degli uomini a concepire un simile strumento di morte? La paura di lasciarlo in mano ad altri. Nel mondo di Ken, si uccide per non essere uccisi.

Barbienheimer esiste

Il film è un’opera sull’impossibilità di ricacciare il genio nella lampada, una meditazione sull’irreversibilità del tempo e della storia: ironico da parte dell’autore del palindromico Tenet. Ed è dunque la grande opera dell’era atomica nella quale viviamo oggi ancora. 

Il fisico aveva espresso questa consapevolezza in alcuni scritti, presto in uscita per Utet (Quando il futuro sarà storia. Otto lezioni dopo Hiroshima). La filosofia critica della tecnologia, quella di Jacques Ellul e di Andrew Feenberg, in fondo non ci insegna altro: quando qualcosa diventa tecnicamente realizzabile, allora verrà irrimediabilmente realizzato. La tecnica non è “neutra”, non “dipende da come la si usa”, ma impone agli uomini tutti i suoi usi possibili. La pistola di Cechov, disposta all’inizio del dramma, verrà usata prima della fine: così l’esistenza degli arsenali atomici ci garantisce, presto o tardi, la distruzione del mondo. Nel frattempo ci siamo goduti, assieme alla Guerra fredda, gli anni dell’opulenza. Tutto è collegato, come suggerisce anche il bel libro di Jean-Marc Royer, Il mondo come progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita (Mimesis).

Il mio analista dice che Barbienheimer non esiste e non può farmi del male. Eppure l’èra atomica e l’età di Barbie fanno tutt’uno. Non soltanto perché coincidono cronologicamente, ma in quanto soltanto nell’equilibrio di terrore determinato dal dominio americano è stata storicamente possibile l’emancipazione femminile in quella specifica forma: il cosiddetto femminismo liberal.

Barbienheimer è, di fatto, un solo e unico film sulle due facce della modernità. Gli Usa hanno trovato un rimedio drastico per contrastare le società patriarcali, fino ai tempi dell’Iraq e dell’Afghanistan: bombardarle. Ora nella mia testa i film di Nolan e di Gerwig sono tutt’uno. In questo incubo a occhi aperti mi ha colpito in particolare una frase: «Io sono Barbie, la distruttrice di mondi».

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