È come cadere nella tana del coniglio di Alice: quando sullo schermo scorrono i titoli di coda di Povere Creature! patisci lo sfratto dalla wonderland di Yorgos Lanthimos più o meno come in tanti abbiamo patito lo sfratto dalla Terra di Mezzo de Il Signore degli Anelli.

Vorresti restarci a vita, metterci radici da inquilino stanziale. Magari il paragone suona blasfemo, ma la prima cotta per il Leone d’oro di Venezia che ha diviso con Oppenheimer il podio dei Golden Globes e si prepara a sfidarlo nella notte degli Oscar è di natura squisitamente estetica.

Il 10 marzo vincerà Christopher Nolan, ma evocare la perfezione dell’universo hobbit non è blasfemia. Il ritorno del re nel 2004 incassò 11 statuette, inclusa quella per il miglior film. La fiaba femminista (post-ideologica) di Bella Baxter, in sala dal 25 gennaio con The Walt Disney Company, arriva al cervello passando per gli occhi.

Un’opera freak

È un’opera freak di pura e coerente bellezza. È un freak il demiurgo Godwin Baxter di Willem Dafoe (familiarmente chiamato God, cioè Dio), devastato da cicatrici infinite, cavia umana grottesca per gli esperimenti del padre chirurgo.

Sono freak l’oca-cane, il gallo-maiale, l’anatra-capra e tutti i cuccioli domestici che saldano Tod Browning (Freaks,1932) al bestiario di Hyeronimus Bosch. È freak l’imbastardimento (sublime) tra Belle Epoque e espressionismo, fra tecniche arcaiche (fondali dipinti e “trasparenti”) e digitali, tra horror e cinema fantastico, tra bianco e nero e colori saturi, tra moda vittoriana e design d’avanguardia.

È freak la lente fish-eye che deforma gli ambienti. Il Diavolo sta nei dettagli, dicono. Il Diavolo probabilmente, ma anche il Dio del cinema. Senza questo universo, la parabola di emancipazione di Bella (Emma Stone, anche produttrice del film, Oscar bis in arrivo?), freak primaria, cervello di feto trapiantato in un esuberante corpo di donna, non risulterebbe così emblematica. Ha il compito di ripercorrere, a velocità supersonica, le tappe simboliche della liberazione femminile e di indicare una utopia concreta e possibile. Parliamo ancora di Barbie, davvero?

Atsushi Nishijima

Il romanzo di Alastair Gray

Per Willem Dafoe – che spunterà la sua quinta nomination ma di Oscar non ne ha ancora visti, pazzesco! – Povere Creature! «è dichiaratamente debitore del Frankenstein di Mary Shelley, con una differenza sostanziale: Victor Frankenstein respinge con orrore la sua creatura, mentre il mio Godwin Baxter, altrettanto poco ortodosso e poco etico, di fatto si innamora di Bella: è il suo modo per offrire a una suicida una seconda occasione di vita, e di darla anche a se stesso». 

Per Godwin, con la sua fede illimitata nella scienza, la sua freak «è qualcosa di generoso, di positivo, di entusiasmante». È d’obbligo un passo indietro, diciamo un flashback. A monte del film c’è il geniale Poor Things, il romanzo di Alastair Gray pubblicato nel 1992. Ha  stregato Lanthimos e da noi è in libreria con Safarà, corredato dalle illustrazioni originali dell’autore, che comprendono anche campioni dell’incerta scrittura di Bella.

Il demiurgo sperimentale del libro, Godwin Baxter, deve il suo nome al filosofo William Godwin, padre di Mary Shelley e fautore di una giustizia politica da esercitare in totale anarchia, nonché di una pedagogia libertaria ispirata a Rousseau. Nel suo Frankenstein, la diciottenne Mary metteva queste parole in bocca alla Creatura: «Do your duty towards me», «fai il tuo dovere verso di me». Rinnegata, tradita, la Creatura si vendica.

Il Baxter di Gray (e del film) non commetterà l’errore tragico del suo predecessore. Progettava di monitorare in provetta, cioè nel chiuso della sua magica casa-laboratorio, l’evoluzione dell’esperimento. Però ne accetta la ribellione, la fuga, la voglia di libertà.

Le dottrine miglioriste di William Godwin fanno capolino nella fase di sensibilizzazione sociale di Bella-Emma Stone, quando nel capitolo “Alessandria” scopre l’abisso tra il lusso dei pochi e la miseria dei più. E ovviamente l’auto-educazione della nostra eroina freak, non impastoiata dalle norme sociali, è parente stretta dell’Emile. Ma la genesi della “donna nuova” è molto più rivoluzionaria di quella dell’“uomo nuovo” immaginato dal bravo Rousseau e molto più temibile, per la popolazione maschile, del Prometeo furioso di Mary Shelley. 

Il patriarca va in pezzi

Senza i tabù, i freni inibitori, la vergogna, il senso di colpa e le convenzioni, senza le caselle sessiste subìte e il puritanesimo non solo vittoriano, l’edificio millenario del patriarcato traballa e va in pezzi.

Sontuoso, barocco e visionario, Povere Creature! è in primis un caterpillar che sbriciola il mito maschilista della donna-oggetto, del corpo da usare, dominare e possedere.

Racconta Willem Dafoe che sul set erano tutti galvanizzati dal lavoro di Emma Stone, «un turbine di bravura, di impegno e di modestia». E i “tutti” non sono attori da poco.

Oltre a Dafoe coprotagonista, Mark Ruffalo è il seduttore libertino di Bella, un casanova narcisista. Ramy Youssef è lo studente reclutato per monitorare i progressi della Creatura e Christopher Abbot un marito-padrone che rispunta dal passato. Nel notevole cast femminile brilla la leggendaria Hanna Shygulla. Ma quando un attore/attrice supera di gran lunga gli standard di contributo creativo, avrebbe il diritto di firmare l’opera da vero co-autore.

Questo è di fatto un film a quattro mani, Lanthimos-Stone. La Emma già Oscar per La La Land traghetta a vista, letteralmente, la scoordinata irruenza di un (bellissimo) corpo adulto in età mentale da kindergarten dentro la pubertà e la scoperta esplosiva del sesso. Basta toccarti in mezzo alle gambe per trovare la felicità. In due magari è anche meglio.

Seguendo la natura

C’è una carnalità trionfante, innocentemente spudorata in questo coming-of-age che sfida qualunque censura. I furious jumping, i “furiosi sobbalzi”, nel candido lessico di Bella, sono sano appetito e puro piacere, senza complicazioni sentimentali o morali, immuni da gelosia e vincoli di fedeltà.

È il Far West dei ruoli codificati: Duncan Wedderburn (Ruffalo), seduttore seriale, precipita nello sgomento e nella più asfissiante subalternità. Sono le norme a sancire il potere. Ma se le ignori?

«Stiamo vivendo cambiamenti epocali – dice Dafoe – vent’anni fa probabilmente un film così non avrebbe avuto questa accoglienza». Per mantenersi, quando arriva a Parigi, la “donna nuova” (per restare a Rousseau) trova lavoro in un bordello. Per libera e autonoma scelta: non è una vittima.

È una sex worker e non ha mai imparato a temere il giudizio degli altri. «Noi siamo i nostri mezzi di produzione», dice la sua collega socialista. Parigi sarà l’ultima tappa del Grand Tour, il pellegrinaggio rituale dei ricchi nelle capitali del Vecchio Mondo così caro alla filmografia della coppia Ivory-Merchant, rivisitato qui in parodia.

Succederà molto altro, a completare un’autoemancipazione che è la natura a dettare, se non ti spengono dentro libero arbitrio, istinto e curiosità. L’ultimissimo siluro contro il maschilismo tossico, guerrafondaio e incline a strategiche amputazioni clitoridee è anche il più estremo e il più esilarante.

No spoiler, ma ricorda il finale di Freaks: Tod Browning forever. La Wonderland gotica e femminista è una sinfonia di squadra. Scenografie: James Price e Shona Heath, che per casa Baxter si sono ispirati alle trasgressioni architettoniche di John Store. Costumi (da sballo): Holly Waddington. Acconciature e trucco prostetico: Nadia Stacey, Francis Bacon le ha suggerito l’asimmetria di Dafoe. Voliamo alto. Con il direttore della fotografia Robbie Ryan e il montatore Yorgos Mavropsaridis, Stacey era già in pool ne La Favorita, l’ultimo Lanthimos. Non cito i nomi per caso: l’Academy ha già preso nota.

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