«Voler mettere a tacere chi la pensa diversamente contrasta con le basi della civiltà e con la nostra Costituzione», non c’è dubbio. E il presidente Mattarella ha fatto bene a ricordarlo, ça va sans dire. Soprattutto in questa stagione in cui i tentativi di mettere a tacere non mancano, a volte con violenza da manifestanti, altre volte con violenza da corridoi e veline.

La libertà di manifestare pubblicamente il proprio pensiero – «con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», come recita la Costituzione all’art. 21 – è la pietra angolare di ogni vera democrazia. E alla ministra Eugenia Roccella va tutta la solidarietà possibile, per esserle stato impedito di esprimere la sua, di opinione. Ma forse – lo diciamo sottovoce – mantenere una reazione più composta, senza gridare al fascismo, sarebbe stato meglio da un punto di vista di opportunità democratica.

Perché se è vero che togliere la parola a qualcuno, nel dibattito pubblico, contrasta con le basi della civiltà e con la nostra Costituzione antifascista, è anche vero che bisognerebbe distinguere – almeno quanto alla gradualità della gravità del fatto – tra il caso in cui, in un pubblico consesso, la parola sia impedita a un’esponente del governo o a chi esponente del governo non è. E il motivo è molto semplice, e consiste nel banale dato di fatto che chi è al governo ha accesso privilegiato e garantito a mezzi di diffusione del proprio pensiero che normalmente sono impediti, o comunque risultano più difficili, a chi al governo non ci sta.

«Sul mio corpo decido io» è la scritta con cui alcuni studenti del collettivo assemblea Aracne e collettivo Artemis hanno contestato l’intervento inaugurale della ministra della Famiglia Eugenia Roccella per l’apertura della quarta edizione degli Stati generali della natalità. Roccella ha provato a dialogare con gli studenti: «Ragazzi ma noi siamo d’accordo, ma nessuno ha detto che qualcun altro decide sul corpo delle donne, proprio nessuno», rinunciando poi a parlare lasciando la sala. «C'è un genocidio in atto e muoiono bambini e qui ci dicono di fare figli», ha detto una delle ragazze dei collettivi dopo che gli organizzatori le hanno permesso di fare un intervento dal palco.

Nessuno, insomma, dubita che la ministra Roccella avesse argomenti interessanti e validi, ed è giusto che il dibattito pubblico su temi così sensibili sia effettivamente articolato e plurale; anzi, in fondo è un peccato che si sia persa una (ulteriore) occasione per uno scambio lucido e paritario, per una opposizione costruttiva.

Ma è difficile credere che la ministra avrebbe avuto difficoltà, la sera stessa del fattaccio, a fare una telefonatina e a farsi ospitare in prima serata sul primo canale del servizio radiotelevisivo pubblico. O anche semplicemente a convocare una conferenza stampa e a poter esporre, in modo del tutto indisturbato, il proprio pensiero. Certo, non l’ha fatto: e questo è sicuramente un gesto di eleganza istituzionale di cui le va dato atto; altri – in questi tempi bui – avrebbero fatto diversamente. Ma la possibilità comunque resta, ed è evidentemente una possibilità che non le sarebbe stata offerta se non fosse stata al governo.

Il punto è che la democrazia non è quel sistema in cui va garantito alla maggioranza di poter parlare; tutt’altro: è quel sistema in cui deve essere garantito alla minoranza. Che una minoranza alzi la voce più dell’altra parte così da impedirle di parlare in una data occasione – posto che quest’altra parte avrà a disposizione altri e ben più potenti canali preclusi invece ai contestatori – è forse, sì, un episodio grave, ma del tutto fisiologico nella dialettica democratica. Patologico sarebbe se non accadesse; o se accadesse il contrario, come purtroppo pure spesso accade, magari con modalità più politiche (leggi: più da privilegiati).

Spiace dirlo, ma di nuovo la parte politica al governo mostra una certa difficoltà a reggere la fisiologia della dialettica democratica, forse per inesperienza, o forse per quel collegamento genetico con una tradizione politica che ha sempre espressamente rigettato i valori democratici. Ma si può ragionevolmente confidare – o almeno sperare – che impareranno.

In fondo, la comprensione della democrazia è questione di maturità. Da piccoli, quando si giocava con gli amici e si doveva decidere qualcosa, ci si contava: «È la democrazia: comandiamo noi, che siamo di più». Ma poi crescendo si capisce che l’autentica democrazia non è quella in cui comanda chi è in di più – questa si chiama tirannia della maggioranza, che sempre tirannia è – ma quella in cui son tutelati quelli che sono di meno.

In altri termini, non è per permettere a chi sta al potere di parlare liberamente che la democrazia è stata inventata. C’erano già altri e ben collaudati schemi, per questo. È invece per garantire che possa farsi sentire forte la voce di chi non è al potere che esiste la democrazia, questo «fragile vascello» che «porta in sé la speranza dell’umanità»: «la sola via per cui passano le energie progressive della storia umana», come scriveva Maritain (J. Maritain, Man and the State, 1951).

È un gioco scomodo, insomma. Sia per chi sta nella minoranza, naturalmente, sia per chi arriva al governo, soprattutto dopo lunghi anni di opposizione, e che al governo scopre come non sia sempre lecito impiegare gli strumenti di lotta politica che poteva usare in precedenza, ora a disposizione dell’altra parte.

Perché a chi occupa la posizione istituzionalmente più forte e garantita sono imposte regole di fair play maggiore.

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