In una recente intervista, la ministra della famiglia, Eugenia Roccella, ha sostenuto che l'aborto non sia un diritto, ma una libertà. Si tratta di un’affermazione che va chiarita sul piano giuridico, perché sul piano di fatto sottende una conseguenza piuttosto grave: se non fosse oggetto di un diritto, ma di una mera libertà, il ricorso all’aborto non dovrebbe essere garantito.

Prima di approfondire, va ricordato che l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) è disciplinata dalla legge n. 194 del 1978, che consente alla donna di potervi accedere nei casi previsti, rispettando una serie di condizioni e secondo una precisa procedura. Dal 2010 è possibile abortire anche con metodo farmacologico (RU486), la cosiddetta pillola abortiva.

L’aborto come diritto, non solo libertà

Quando Roccella dice che la legge «garantisce la libertà alla donna di scegliere», ma non il diritto di abortire, sembra non considerare che libertà e diritti sono strettamente collegati fra loro. La libertà di scelta rilevante sul piano giuridico - a differenza della mera facoltà di scelta, che conta solo sul piano fattuale – si concretizza nell’esercizio di un diritto che, a valle della scelta, consente al soggetto interessato di pretendere una certa condotta o prestazione oppure altro. Insomma, ciò che non costituisce un diritto non può essere oggetto di una pretesa giuridicamente tutelata.

Non ha fondamento l’affermazione secondo cui l’IVG non si può configurare come diritto, poiché la legge 194 non definisce espressamente l’aborto come tale, mentre sancisce in via esplicita «il diritto alla procreazione cosciente e responsabile». Il fatto che l’IVG non sia definita come diritto non significa che la donna non ne abbia diritto, nel rispetto delle condizioni di legge.

L’IVG è una prestazione medico-chirurgica – la definisce così il ministero della Salute – e va garantita così come dovrebbero essere garantite le altre prestazioni di tipo sanitario. La legge non qualifica tali prestazioni come oggetto di un diritto, ma nessuno dubita che lo siano e che, quindi, il cittadino possa pretenderle, quando ne ricorrano le condizioni, per attuare il diritto alla salute (art. 32 Cost.). E la tutela della salute della donna è un elemento che ricorre nel dettato della legge 194.

Dunque, solo attraverso l’esercizio del diritto all’aborto, come espressione del diritto alla salute, può realizzarsi la relativa libertà di scelta, giuridicamente tutelata. Senza diritto di abortire, la libertà giuridica di scegliere di abortire varrebbe zero.

I diritti degli altri

Non ha fondamento nemmeno l’idea secondo cui l’aborto non potrebbe qualificarsi come vero e proprio diritto poiché si scontra con diritti di altri soggetti, in primis del concepito. Premesso che nessun diritto è assoluto, ma dev’essere bilanciato con diritti altrui, quelli del concepito sono ponderati rispetto ai diritti della donna a opera della legge che, oltre un certo termine della gravidanza, consente l’aborto solo in casi limitati o non lo consente affatto. La tutela del concepito si basa sull'art. 31 Cost., che impone la «protezione della maternità» e, più in generale, sull'art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo.

Tuttavia, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 27/1975), la protezione del nascituro è dovuta nei limiti delle «particolari caratteristiche sue proprie». Infatti, «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare». In altre parole, nel bilanciamento di diritti quelli della donna prevalgono su quelli del concepito.

Il diritto all’IVG si scontra anche con quello degli obiettori di coscienza, che la legge 194 esonera dall’obbligo di effettuare procedure e attività dirette a determinare l’aborto (art. 9). La tutela di questi ultimi è riconducibile (sent. Corte cost. n. 196/1987) alla libertà di fede religiosa e alla libertà di manifestazione del pensiero (artt. 19 e 21 Cost.). Tuttavia, l’obiezione di coscienza è disciplinata dalla legge come eccezione.

Il fatto che oggi quest’eccezione, rovesciando l’impostazione normativa, stia diventando una regola che rende sempre più difficile l’IVG, non significa che essa possa prevalere sulla garanzia del diritto all’aborto. La legge è chiara: nonostante la tutela dell’obiezione di coscienza, le strutture sanitarie sono tenute «in ogni caso» ad assicurare l'effettuazione delle IVG. «La Regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale».

L’aborto in sedi internazionali ed europee

Questa impostazione è riconosciuta anche in sedi internazionali. L’organizzazione delle nazioni unite (Onu) in più occasioni ha affermato che l’aborto sicuro è oggetto di un diritto umano, configurando il suo diniego come una forma di violenza. L’organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce l’aborto sicuro come espressione del diritto alla salute e, precisando che tutti gli individui devono aver accesso a cure mediche di qualità, afferma che «la mancanza di accesso all’interruzione di gravidanza sicura, tempestiva, efficace e dignitosa rappresenta un rischio il benessere non solo fisico, ma anche mentale e sociale di donne e ragazze».

Nel 2016, il comitato europeo dei diritti sociali presso il consiglio d’Europa ha rilevato come, ai sensi della carta sociale europea (art. 11), «ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del miglior stato di salute ottenibile», quindi anche di una IVG sicura. Inoltre, dopo la sentenza della corte suprema americana che, il 24 giugno 2022 ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade - con cui, nel 1973, il medesimo organo di giustizia aveva riconosciuto il diritto di interruzione della gravidanza - il parlamento europeo ha chiesto con una risoluzione che il diritto all'aborto sia inserito nella carta dei diritti fondamentali di Nizza, affermando che i paesi dell’Unione europea dovrebbero garantirlo attraverso l'accesso a servizi sicuri, legali e gratuiti.

Un diritto compresso

Il comitato europeo dei diritti sociali, nella citata decisione del 2016, ha rilevato come l’Italia violi la carta sociale europea a causa della carenza nell’offerta di servizi abortivi, data dall’alto numero di obiettori, dall’inefficienza delle strutture sanitarie nel rimediare a tali carenze, dall’inattività dell’autorità di vigilanza regionale.

Questi fattori compromettono l’effettività del diritto all’aborto sicuro, determinando rischi per la salute delle donne, nonché un effetto di dissuasione verso pratiche abortive. La complessità nell’accesso alla relativa procedura in base alle zone geografiche d'Italia, peraltro, viola il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.).

I problemi che in Italia le donne incontrano nel ricorrere all’IVG sono stati ribaditi anche di recente da parte del comitato europeo, che ha sottolineato pure le difficoltà di ottenere dal governo italiano informazioni sul numero o sulla percentuale di domande d'aborto non soddisfatte in un determinato ospedale o in una regione a causa del numero insufficiente di personale non obiettore. Difficoltà rilevate anche dall’associazione Luca Coscioni e dalle realtà aderenti all’iniziativa Dati Bene Comune, che chiedono al ministero della Salute trasparenza nell’accessibilità ai dati relativi all’applicazione della legge, necessari per valutare la situazione del servizio in Italia. Non basta la relazione del ministero.

Sorge il sospetto che la dichiarazione di Roccella sull'inammissibilità della configurazione dell’aborto come diritto non sia solo un’opinione personale, ma possa essere usata anche come una sorta di giustificazione circa le mancanze del sistema sanitario nel garantire l’IVG a tutte le donne che la richiedano, nel rispetto delle condizioni previste dalla legge. Sarebbe grave, e mistificatorio, se si insinuasse il dubbio che le difficoltà nel ricorrere all’aborto siano connesse al fatto che esso non rappresenti un vero e proprio diritto.

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