La chiesa cattolica è come un binario unico con due treni in corsa da parti opposte: arriva il momento in cui uno dei due deve fermarsi per evitare lo scontro. In questi giorni, il collo di bottiglia è a Tyler in Texas, una delle quasi duecento diocesi cattoliche degli Stati Uniti, retta da mons. Joseph Strickland, che ne è stato vescovo fino alla rimozione voluta dal papa stesso, dopo due anni di visita apostolica.

È una procedura rara, non inedita, che sarebbe passata sotto silenzio se il vescovo radiato non ne avesse parlato pubblicamente. Per capirci, lo scorso giugno il vescovo di Knoxville ha presentato, nel silenzio totale, le sue dimissioni dopo le indagini per presunta malagestione, e il papa le ha ovviamente accettate.

Ma il Texas non è il Tennessee, e la rimozione di un vescovo nello stato retto da un governatore convertitosi al cattolicesimo manifesta le convulsioni di una guerra di logoramento in atto fra la Santa sede e il fronte conservatore della chiesa statunitense. Per alcuni analisti, le battaglie identitarie di alcuni vescovi, per nulla confortati da Joe Biden, secondo presidente cattolico degli Stati Uniti, sono trincee che li isolano: una settimana fa, per esempio, la vittoria dei gruppi pro-aborto nelle recenti elezioni in Ohio malgrado i milioni di dollari spesi da associazioni cattoliche, sarebbe l’ennesimo inciampo di una chiesa che ha fatto della storica sentenza Roe vs. Wade lo spauracchio di una crociata.

Panico transgender

Nel caso di mons. Strickland, il vescovo ha criticato a più riprese la linea di Roma su temi come i vaccini e le aperture alla comunità Lgbt+. Poco tempo fa, ha definito il Sinodo un «tentativo da parte di alcuni di cambiare il focus del cattolicesimo dalla salvezza eterna delle anime in Cristo all’affermazione dell’indipendenza di ogni persona, indipendentemente dalle scelte di vita».

Con le sue dichiarazioni, il presule dà voce a una frangia episcopale reazionaria che difende l’ortodossia cattolica proiettandola sul piano politico: la possibilità di non dare la comunione a politici pro-choice come il presidente Joe Biden o le aperture delle istituzioni cattoliche alla comunità Lgbt+ sono due fra gli argomenti più scottanti. Di recente, Jayd Hendricks, presidente dell’organizzazione conservatrice no-profit Catholic Laity and Clergy for Renewal, ha accusato il papa di proporre temi marginali nella chiesa: «Quest’idea che i vescovi americani siano fissati sulla sessualità è falsa. Sono i leader del Sinodo sulla sinodalità e i delegati nominati dal papa a concentrarsi sull’omosessualità, sul matrimonio e sugli ordini sacerdotali. Molti vescovi qui sono stanchi di p. James Martin e altri impongono loro la discussione LGBTQ» scrive sul sito conservatore First Things. Ma le cose non stanno così.

Pochi mesi fa, il Washington Post ha riferito che l’organizzazione presieduta da Hendricks ha sostenuto l’iniziativa di un gruppo di cattolici per stanare i sacerdoti fruitori di dating app gay e poi farne un’operazione coatta di outing.

Tutto questo mentre il governatore Abbott vuole indagare sui genitori che chiedono la terapia ormonale sostitutiva per i figli, spalleggiando il procuratore generale Ken Paxton, amico di Trump, che ha definito alcune terapie di transizione «abusi su minori».

Per giunta, il dibattito sulla sessualità non è neppure nuovo. Nel 1984 papa Giovanni Paolo II, dopo due anni di indagini, umiliò fino alle dimissioni mons. Raymond Hunthausen, arcivescovo di Seattle, colpevole di aver assegnato alle donne ruoli di leadership, aver concesso ai credenti gay di Dignity di partecipare alla messa nella cattedrale di Saint James, ed essersi speso per il disarmo nucleare della flotta americana Trident.

Alla ricerca di martiri

Con l’elezione di papa Francesco, primo pontefice latinoamericano, il tenore delle frizioni è cambiato. Il punto di rottura risale al 2018, quando l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, ha accusato pubblicamente il papa di negligenza nella gestione del caso del cardinale Theodore McCarrick, abusatore seriale, arrivando a chiederne la rinuncia.

La frangia anti-Bergoglio ha, così, preso nuova linfa in una chiesa dove le diocesi, citate in giudizio per i numerosi casi di abuso, rischiano la bancarotta. Baltimora, la più antica diocesi degli Usa, a settembre ha dichiarato il fallimento dopo l’eliminazione dei termini di prescrizione nello stato del Maryland. Svuotate casse e chiese, il fronte conservatore si fa rappresentante di una minoranza che presunti poteri forti vorrebbero annichilire.

È questa la retorica del martirio di mons. Strickland, che in una recente intervista si è paragonato a un vescovo inglese decapitato da re Enrico VIII per la sua fede. Come spiega Daniele Giglioli in Critica della vittima (Nottetempo, 2014): «La verità indiscussa esiste solo per le vittime della non verità. Se la verità è dubbia, la menzogna è certa quando la si subisce».

Ma l’affaire McCarrick, che rappresentava il fronte liberal del clero statunitense – suo l’appello nel 2004 a non fare dell’Eucarestia al candidato dem pro-choice John Kerry un «campo di battaglia politica partigiana» – ha minato anche la credibilità della chiesa senza muri del papa argentino.

Dopo il rigorismo di Benedetto XVI, Francesco sta facendo uno sforzo per plasmare un’istituzione trasparente, refrattaria al clericalismo, meno rigida sulla dottrina. Non a caso, fra i membri da lui nominati per la partecipazione al recente Sinodo, figurano gli esponenti di questa chiesa made in Usa: i cardinali Cupich (Chicago), Etienne (Seattle), Gregory (Washington) e McElroy (San Diego).

Eppure le statistiche dicono altro. Secondo un rapporto dello scorso novembre stilato dalla Catholic University of America, più della metà dei sacerdoti ordinati dal 2010 si definisce come «conservatore» in campo teologico e dottrinale. Solo il 44 per cento si sente «moderato», ma il cambio di passo è evidente: come sottolinea il rapporto, negli anni 1965-1969 si definiva «progressista» il 68 per cento dei preti, attualmente «ridotto quasi a zero».

Oggi diversi seminari nordamericani sono bolle di resistenza: anche a questo papa Francesco ha reagito con il motu proprio Traditionis Custodes, con cui nel 2021 ha regolato l’utilizzo della liturgia anteriore alla riforma del 1970, in voga in alcuni ambienti conservatori come malcelato rifiuto del rinnovamento del Concilio vaticano II.

Scontro fra sante

La battaglia per la comunione della chiesa negli Usa si consuma anche tra i santi. Per i cattolici conservatori, Mother Angelica, la suora fondatrice di EWTN, la più grossa emittente religiosa degli Stati Uniti, dovrebbe essere candidata a diventare santa. Ma il suo personaggio divide gli americani, il New York Times la definì una «suora scaltra, ma anche nonna di un’epoca passata»: una badessa della tv via cavo intransigente verso le istanze femministe nella chiesa cattolica che, nel corso della sua vita, si scontrò a più riprese con i vescovi più liberal, come mons. David Foley, che non accettava in lei la nostalgia per le forme liturgiche preconciliari.

Durante la Giornata mondiale della gioventù di Denver nel 1993, bollò come blasfema una via Crucis con Cristo impersonato da una donna. Nonostante questo, nel 2009 papa Benedetto XVI le conferì la Croce d’oro, il riconoscimento più alto di un papa a una personalità laica.

Al contrario, sta procedendo a passo spedito il processo che mira alla canonizzazione di Dorothy Day, l’attivista anarchica convertita al cattolicesimo, che si spese per i poveri di New York. I conservatori non ne sono entusiasti: Day sarebbe la prima santa ad aver abortito, seppure prima della conversione al cattolicesimo.

Eppure su di lei si gioca il tutto per tutto papa Francesco, che nel 2015 la citò davanti al Congresso degli Stati uniti come uno dei pilastri dell’identità americana. È la chiesa dalle due facce che nel Texas, stato della Stella Solitaria, papa Francesco ha cercato forzatamente di unificare.

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