Lo slogan di Joe Biden “America is back” vale anche per la chiesa statunitense. Con il suo insediamento, l’episcopato sta facendo marcia indietro sulle dispute da «culture war» che Trump aveva arginato.

Fin da subito, Biden ha fatto i conti con le visioni che il clero aveva già su di lui, che si definiva «coerente con la dottrina sociale della chiesa» pur appoggiando la linea dei dem sull’aborto legale della sentenza Roe v. Wade.

Ora che Biden non vive più all’ombra del predecessore Barack Obama, i vescovi lo invitano sincronizzare la sua fede con l’agenda politica. Pochi giorni fa il Washington Post ha reso noto che, in vista del congresso dell’episcopato cattolico degli Stati Uniti (Usccb) il prossimo giugno, si deciderà nero su bianco se potrà ricevere o meno la comunione.

Lo scoglio sarebbe la sua incoerenza etica, avendo rilanciato l’Affordable Care Act di Obama, la riforma sanitaria che obbliga i datori di lavoro a offrire coperture assicurative che includano la contraccezione e i farmaci abortivi.

Un presidente divisivo

Tanto rumore per nulla dicono i vescovi, eppure sembra ripetersi il copione di sei mesi fa. Appena eletto Biden, l’Usccb aveva creato un gruppo segreto per trattare la questione della sua coerenza rispetto alla road map politica.

Tra i promotori, l’arcivescovo di Detroit, il conservatore Allen Vigneron, spalleggiato dal presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo di Los Angeles, José Gómez. Dal gruppo erano stati estromessi l’arcivescovo di Wilmington (Delaware), Francis Malooly – da poco in pensione –  e il neocardinale e arcivescovo di Washington, l’afroamericano Wilton Gregory, che avevano dichiarato piena accoglienza al presidente cattolico, nonostante le convinzioni personali sull’aborto.

La linea Ratzinger

La vicenda ricalca la disputa sull’Eucaristia a John Kerry del 2004. Il democratico era allora in corsa per la presidenza quando alcuni vescovi si rifiutarono di concedergli la comunione. Nella faccenda era intervenuto anche Ratzinger, allora prefetto del Sant’Uffizio, con un memorandum ai vescovi in cui, pur menzionando il divieto alla comunione nei casi di «ostinata persistenza» nella «cooperazione al male», delegava loro «la facoltà di esprimere giudizi pastorali prudenti nelle proprie specifiche circostanze».

Il documento ha aperto la strada alla lettera Catholics in Political Life, approvato in schiacciante maggioranza dopo la Conferenza di Denver, con cui si ribadiva l’assenza di un’applicazione rigorosa, anche grazie all’opinione di un teologo conservatore di tutto rispetto, come il gesuita Avery Dulles.

La linea continuò anche quando Ratzinger fu eletto papa: nel 2008, durante la messa da luci officiata a Washington, i dem Kerry e Pelosi ricevettero comunque la Comunione.

Una divisione più ampia

Dopo la cerimonia di insediamento, con una lettera il presidente dell’Usccb Gómez si diceva preoccupato per «determinate politiche che possono minacciare la vita e dignità umana come l’aborto».

Dal tono si è dissociato l’arcivescovo di Chicago, il cardinale Blase Cupich, che ha definito le sue parole «imprudenti». Gli ha fatto eco il cardinale Wilton Gregory, che ha salutato il nuovo presidente insieme ai gesuiti di Georgetown.

Ma le crepe, oggi evidenti, nell’episcopato americano non sono riconducibili a una semplicistica opposizione tra progressisti e conservatori. Con papa Francesco, infatti, queste s’innestano in uno spettro più ampio fatto di macro-temi sociali, come la cura del creato e l’accoglienza dei migranti.

La visione di Bergoglio non sminuisce la posizione della chiesa cattolica nella difesa di principi etici: «Non è lecito pertanto evadere da tali questioni o metterle a tacere» aveva detto il papa all’episcopato Usa nel 2015. Semplicemente, Francesco supera l’impostazione manicheista del «riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori […]. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto» (Discorso al Congresso Usa, 2015), come già teorizzava l’arcivescovo di Chicago, Joseph L. Bernardin, che tanta influenza ebbe sulla formazione sociale di Barack Obama.

A Cesare quel che è di Cesare

Stando all’ultimo sondaggio del Pew Research Center, secondo il 29 per cento dei cattolici americani il presidente Biden non dovrebbe ricevere la comunione per il suo sostegno all’aborto.

La pensa diversamente il 67 per cento degli intervistati ed è questa malleabilità dottrinale che preoccupa i vescovi più intransigenti. La pensa così il cardinale Daniel Di Nardo, dell’arcidiocesi di Galveston-Houston, che ritiene l’opposizione all’aborto «la nostra priorità preminente».

Il primo maggio, l’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Cordileone, ha scritto una lettera invitando i cattolici a rimanere in comunione con la chiesa di Roma e rivolgendosi implicitamente a una sua fedele, la cattolica speaker della Camera, Nancy Pelosi.

Ha fatto, invece, nomi e cognomi Joseph Naumann, arcivescovo di Kansas City, che in una recente omelia ha condannato la mentalità abortista e «religiosamente incoerente di Biden».

L’Eucaristia non è un campo di battaglia

La pensano diversamente i vescovi ritenuti progressisti che, sebbene preservino l’insegnamento della chiesa sui temi etici, cercano le tracce di quella che il teologo De Lubac definì conciliazione degli opposti. Oltre a Gregory, Cupich e all’arcivescovo della diocesi di San Diego, mons. Robert McElroy, c’è anche l’influente arcivescovo di Lexington (Kentucky), John Stowe: «Credo sia un grave errore negare la Comunione al presidente Biden, che è un cattolico praticante e ha dimostrato la sua fede nei momenti difficili della sua vita» spiega il presule francescano, che aggiunge: «Negargli la comunione sarebbe un supporto partigiano agli oppositori e dividerebbe ancora di più la chiesa».

Le sue parole ricordano quelle pronunciate nel 2004 a Denver dall’allora cardinale McCarrick, che davanti ai vescovi ostili a John Kerry mise loro in guardia dal trasformare «la sacralità dell’Eucaristia in un campo di battaglia politico partigiano». Diciassette anni dopo, la questione ritorna, ma in modo più complesso.

«Diversi membri della chiesa americana sono disposti a ridurre tutta l’agenda pro-vita all’unico problema dell’aborto e sono le stesse voci che chiedono al presidente di non ricevere l’Eucaristia», sottolinea Stowe, che polemizza contro l’assolutizzazione delle battaglie politiche che escludono questioni ugualmente pro-vita, come il sostegno alla giustizia sociale e ambientale.

È la stessa prospettiva conciliante di Biden, come analizza il filosofo Mario Borghesi in una recente monografia dedicata al cattolicesimo americano (Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e ospedale da campo, JacaBook, 2021): «Biden ha dato prova, nel suo discorso inaugurale, di grande saggezza. La stessa che manca a parte del cattolicesimo americano dominato dall’idea delle culture war».

Al prossimo incontro dei vescovi sarà chiaro se il secondo presidente cattolico degli Stati Uniti saprà tenere assieme le voci dissidenti. Mutuando le parole da lui pronunciate a Capitol Hill, la battaglia è perenne e la vittoria non è mai assicurata.

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